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Nel corposo carnet di personalità di rilievo che la letteratura nordamericana ha saputo regalarci nel secolo scorso, Charles Bukowski e Edward Bunker occupano una meritata posizione di rilievo in virtù sia di un innegabile talento narrativo (che non a caso continua a generare emuli in tutto il mondo), sia per la straordinaria concomitanza tra produzione letteraria ed esperienza umana di questi due grandi scrittori. Il primo, cantore originale e spregiudicato della disfatta del Sogno Americano attraverso un cospicuo numero di libri zeppi di battone isteriche e ubriaconi perdigiorno, giunse agli onori della gloria nei tardi Settanta, dopo un interminabile purgatorio durante il quale lo scrittore, oltre a sbronzarsi senza ritegno, fece circolare i propri lavori per mezzo delle fanzines amatoriali e delle riviste pulp guadagnandosi così stuoli via-via più consistenti di fan e diventando, d’un tratto, un vero e proprio autore di culto, osannato dai giovani di tutto il mondo al pari di un Kerouac o di un Baudelaire. Il secondo invece, dopo una vita dissennata passata per lo più dietro le sbarre, ha saputo più recentemente guadagnarsi la ribalta attraverso una prosa secca e mai celebrativa che rappresenta con crudezza la propria personale esperienza nelle peggiori prigioni della California. La sua popolarità, dopo sette romanzi rispediti al mittente, è esplosa improvvisa e deflagrante, tanto da meritargli la copertina di Harper’s e l’acclamazione di registi come Quentin Tarantino (che lo ha voluto per l’interpretazione di Mr. Brown in Le iene, ma Bunker, grazie anche al suo volto scavato da eterno villain contava già decine d’apparizioni in pellicole come Sorvegliato Speciale e A trenta secondi dalla fine).
I punti di contatto tra i due scrittori sono numerosi: cantori del peggiore sottobosco delle scintillanti metropoli made in USA (Los Angeles nello specifico, con le sue atroci contraddizioni alimentate dallo sfavillio di Hollywood), ambedue raccontano storie di un’umanità deragliata e sbilenca, assurgendosi al ruolo di strenui oppositori di un sistema che in qualche maniera non ha saputo accoglierli: per Bukowski è la sua vita randagia e squattrinata la bandiera di una libertà guadagnata col sangue a furia di pestaggi e sbronze, per Bunker è l’eterna lotta con la legge, spesso rappresentata da crudeli secondini e poliziotti corrotti, a loro volta vittime, come in una paradossale matrioska senza fine, di un gioco assai più grande.
In tutti e due gli scrittori è presente una malcelata volontà di riscatto: Bunker guarderà sempre con invidia e ammirazione i potenti veri, quelli in grado di manipolare il destino della Nazione, aspirando anche lui - inutilmente - a contare qualcosa al di fuori del carcere, dove «chiunque, in ogni istante, può ficcartelo nel culo». Buk invece, per quanto affezionato romanticamente alla propria anarchica condizione di loser cinico e disperato, volgerà lo sguardo sempre con sdegnoso distacco ai nullafacenti della peggiore risma che riempiono le sue giornate. Figli degeneri di un “machismo” di stampo hemingweyano, i due autori maturano col tempo una visione personalissima dello stoicismo: per Bukowski si trattava di mostrarsi sempre il più duro per non soccombere nei ghetti (salvo poi, però, abbandonarsi a tenerezze improvvise con qualche prostituta particolarmente ispiratrice); per Bunker invece, cresciuto tra i detenuti, lo sprezzo del pericolo e il mascheramento della paura sono regole assimilate quasi inconsapevolmente («colpire per primo» diventa una sua legge basilare sin dalla tenera infanzia, quando sconta la sua prima pena in un riformatorio). Se questo dato è però il punto di contatto più forte tra i due, al tempo stesso è pure quello sul quale cominciano a delinearsi le differenze.
In Bunker lo stoicismo non è mai un sentimento necessariamente esemplificativo della propria personalità, ma diventa invece quasi un’urgenza, un bisogno maturato negli ambienti carcerari dove il nostro si ritrova a passare porzioni considerevoli della sua esistenza, mentre per il vecchio Hank (nomignolo di Bukowski) diventa lo strumento corrosivo grazie al quale sbeffeggiare le assurde regole del capitalismo: «’Fanculo al lavoro, ’fanculo allo svegliarsi ogni giorno alle otto, ’fanculo alla famiglia… Umanità, mi stai sul cazzo da sempre!», urla Henry Chinaski (l’eterno alter-ego di Buk in quasi tutti i suoi scritti) in un racconto edito in Italia nella raccolta Compagno di sbronze (Feltrinelli). Ciò non di meno, però, lo stiletto utilizzato da Bunker per i ripetuti affondi al sistema sono in realtà solo apparentemente meno caustici di quelli del collega: in Come una bestia feroce (Einaudi) la cruda descrizione dell’impossibilità, da parte del protagonista - un ex galeotto vanamente intenzionato a rigare dritto - di reinserirsi nella società “civile”, tocca corde profonde che hanno ben poco d’ironico e che, in soldoni, sparano al lettore un quesito di non facile solvibilità: la carcerazione, strumento principe del nostro sistema giudiziario per il controllo sociale, riabilita o segna in modo indelebile il destino di un uomo? A livello stilistico, la differenza tra questi due grandi ribelli della cultura underground diventa sostanziale: ciò che in Bunker è descrizione nuda e cruda della terribile violenza che amministra i rapporti tra gli esseri umani (lasciando al lettore il giudizio insindacabile), in Bukowski diventa sentenza inoppugnabile. Per Hank l’unico punto di vista possibile è il suo, quello del narratore onnisciente, arrivando a riproporre nelle sue storie sempre i medesimi schemi sino a diventare ripetitivo, ed è solo l’indubbia carica d’autoironia (che pure non gli risparmiò l’accusa di maschilismo e di fascismo, accuse tra l’altro ben accette dall’autore, il quale non disprezzava mettersi in mostra con pose anticonformiste) che permette al lettore di simpatizzare con lui, immedesimandosi - con cautela - negli sconfitti pieni di boria che costellano il suo universo narrativo. Entrambi gli autori poi, hanno avuto ripetuti contatti con il cinema: oltre alle comparsate di lusso cui si accennava, Bunker ha scritto per il suo amico Steve Buscemi la sceneggiatura di Animal Factory - ispirato al libro omonimo derivante dal suo primo soggiorno a San Quintino - mentre Bukowski, oltre all’inguardabile Storie di ordinaria folliadi Marco Ferreri con Ornella Muti, compattò per il regista Barbet Schroeder il film autobiograficoBarfly (ed è curioso che, quasi a sottolineare un parallelismo tra i due scrittori, ad entrambi i film abbia partecipato l’attore Mickey Rourke, altro splendido loser che, dopo anni di autoflagellazione, finalmente il cinema mainstream ha saputo nuovamente sdoganare).
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