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Buon lavoro, Nick

Creato il 13 marzo 2011 da Rightrugby

Buon lavoro, NickE allora sono tutti contenti perché l’Italia ha vinto. Nel Paese dei campioni del mondo di salto sul carro del vincitore, ognuno potrà proclamare: "oh vedi, finalmente han giocato come avevo detto io!". E' in fondo uno dei belli dello sport, o meglio di una sua certa visione "da bar" (anche da bar virtuale, leggi blog). Niente di male, è natura sui, anche se spesso con tale approccio si tagliano gli angoli, l'analisi si fa miope, gli stilemi critici inevitabilmente si fanno calciottardi e anche nel più "squadrista" degli sport di squadra, va a finire che "Tizio ha giocato bene", punto e a capo, oppure vuoi mettere Sempronio al posto di Caio, in campo o in tribuna. A soffrine è la comprensione dei perchè di fondo, più o meno "forti", del laborioso lavorìo preparatorio sia tecnico che organizzativo, quello che in ambito calcistico amano definire "Progetto".
Abbiamo finalmente vinto contro una grande, per citare il pensiero di Nick Mallett. Chi passa da queste parti sa che non abbiamo lesinato le critiche al tecnico sudafricano nel tempo, del resto pagato per il ruolo di responsabile ultimo delle prestazioni Azzurre e dei loro risultati. Così come non ci siamo certo tirati indietro dal difenderlo, trovandoci invero controcorrente soprattutto nell'ultimo paio di stagioni mentre i ditini alzati lamentavano quella che abbiamo definito “la linea del Piave così come la intende Mallett”. Non siamo intenzionati ad avvolgerci di incenso seguendo lo stile da giornalismo cane, quello del "come avevamo qui anticipato sin dal 1973 ..."; semplicemente proviamo venire al nocciolo della questione.


Tra il ct e "l'ambiente" – a partire dalla Federazione, proseguendo con il mainstream media giù fino alla base– da un po' è corsa della maretta. E' finito sotto pressione perché questa sua Italia non vinceva, giocava male e faceva giocare male gli avversari – e un bel cavoli loro no? No, perché sembrerebbe che l’opinione pubblica rugbistica italiana sia strenua sostenitrice del bel gioco, altrimenti nisba. Nella realtà ama le vittorie comunque esse arrivino e si deprime alle sconfitte reiterate, come dargli torto? Solo che sovente manca l'equilibrio nel valutare le une e le altre.
Va riconosciuto che l'ambiente, fuori di vertice federale e pubblicistico, ha di positivo un attaccamento costante nonostante i risultati, una "fede Azzurra" che si ripropone ad ogni evento, pur tra le critiche sovente distruttive propalate dall'alto. Perchè scarseggia l'analisi: Lievremont ad esempio, accusabile di tutto ma non certo di esser un incompetente, ha detto della partita di ieri: "A un certo punto eravamo noi francesi avanti di dodici punti, ma il gioco continuavano a farlo loro, quindi sapevo che si trattava un vantaggio effimero". Rovesciando la frittata, certi decisi progressi, quelli che ci han portato alla vittoria di ieri, erano già evidenti anche nelle partite contro l'Irlanda e il Galles. Mancava solo quel pelino di convinzione in più e l'han trovato proprio contro la nostra "bestia nera" abbastanza sfavata per fortuna: nello sport come nella vita la ruota gira, se hai lavorato bene e hai mantenuto "la fede", prima o poi gira nel tuo verso e ne puoi approfittare.


Non esistono molti modi per vincere a rugby. Ne esiste solo uno: giocando con ciò che si ha. L’Italia non ha per esempio le qualità per affrontare alla pari la potenza e determinazione inglese e ha pagato carissima la scelta di disporsi a Twickenham con l’altezzosità vanagloriosa pretesa da certa critica stile "Radio Maggica", inclusiva di (o ispirata da) un gioco Federale stile "o la va o la spacca", tanto l'alternativa è pronta. Contro les Bleus, gli Azzurri hanno finalmente messo a punto la loro tattica: hanno difeso e hanno attaccato, sempre arrembanti a guadagnar terreno. Chi ad esempio sentenziava contro l’ingaggio del famoso allenatore del punto d’incontro oggi tace. Gli Azzurri hanno difeso respingendo le iniziative tanto degli avanti quanto dei trequarti avversari. Il rugby moderno, con buona pace di alcuni nostalgici, non è (più) attacco o difesa, tantomeno non è (mai) stato fatto di difesa uguale avanti e attacco uguale trequarti: oggi più che mai il rugby versione Union è concentrazione nell’area del breakdown, lottando su tutti i palloni senza farsi prender dentro in troppi, mantentendo la linea con disciplina e la massima compostezza, con l'obiettivo di guadagnar terreno sempre, sia in fase di possesso che di contenimento degli avversari.
E' stato un lungo processo quello che ha portato "quello che si ha" alla vittoria di ieri. Passato attraverso i disapppunti delle due precedenti sconfitte casalinghe, tradito dal passo falso di Twickenham ma partito da lontano, dal lavorìo lungo tre anni sui basics, vòlto prima di tutto a far arrivare gli Azzurri all'ottantesimo, poi a difendersi con efficacia (e in tal senso la svolta nazional-popolare "andiamo a far gioco a Twickenham" è stato un vero disastro, potenzialmente destabilizzante, che invece è stato abilmente girato in un necessario bagno di umiltà, un ritorno alla "sana paura" dell'avversario, per usare le parole di Parisse pre-Galles che tanto han scandalizzato qualche nostalgico di Balaklava). Un lavorone - un "progetto" - cui va dato atto a Mallett, a chi con lui ha collaborato in modo più o meno efficace, a chi ci ha creduto, salvo tirarsi indietro sul più bello.
La mischia ordinata ieri ha faticato, ma gli uomini di mischia hanno fornito l’assistenza necessaria e gli uomini di mischia erano al posto giusto quando c’era da attaccare: Andrea Lo Cicero va a sostegno di Masi quando l’aquilano è lanciato dall’off load di Luciano Orquera, Martin Castrogiovanni fa il ball carrier come nei Tigers, Festuccia strappa palloni da vero grillotalpa agli avversari. Insomma: il meccanismo ha finalmente funzionato tutto insiem, nel corso degli ottanta minuti che hanno fanno la storia. Complice lo sfavamento avversario, certo; ma questi son problemi loro, e poi una parte dei loro occhi che guardavano per terra erano certamente indotti dall'impotenza provocata dal feroce approccio nostrano con o senza possesso, quasi "alla sudafricana".


Il merito va dato al gran lavoro nel tempo lungo di quell’omone un po' inglese e molto sudafricano, che parla un italiano contaminato dal francese e che ha fatto su e giù dalla tribuna a bordo campo. Graham Jenkins, editor a Scrum.com, ha scritto che la Fir dovrebbe tenerselo solo per il body language a favor di telecamera. Noi supponiamo soltanto che questa storica vittoria italiana per lui voglia dire molto, che ora potrà lavorare con un filo di tranquillità e credibilità in più per la trasferta a Edimburgo; ma già si sentono i ritornelli, per cui se si è vinto con la Francia per forza si vince con la Scozia: under-dog signori, manteniamo una sacchiana straordineria umiltè per favore, per evitare la finaccia di Twickenham - so' anglosassoni gli Scots, cagnacci sempre sull'osso a ringhiare, mica soggetti alle lune come i latini.
E' una vittoria che vuol dire molto anche per tutto il gruppo di atleti a partire dai "senatori", che ha identificato in Mallett - competente, umano, esperto, con un gran curriculum ma poco "fortunato" in questa esperienza Azzurra che gli ha rovinato tutti i track record - una sorta di simbolo, uno di loro.
Dondi ha affermato più volte che i conti verranno fatti alla fine del Sei Nazioni; quindi dopo questa storica vittoria possiamo ritenere che ambiente e coach potranno lavorar tranquilli sino ai Mondiali e chi si dovrà preoccupare sarà chi ha eventualmente firmato altre "impegnative" da una parte o dall'altra.
Come Mallett ha il diritto di fare le sue scelte ("Io sono Mallett, tutti mi cercano e posso scegliere cosa fare", disse a novembre, al tempo dello sfogo su "quelli che non capiscono un biiip di rugby"), anche la Fir ha il dovere di scegliere il meglio per gli Azzurri. Speriamo solo lo faccia a ragion veduta e col tempismo giusto, non sull'onda emotiva lunga di scelte intempestive fatte nello scorso novembre, o della vittoria storica di oggi. Ora che tutti parlan solo bene di Mallett, noi che lo abbiamo difeso nei "tempi cupi" e che continuiamo a esaltare il lavoro enorme, epocale a lui dovuto per elevare gli standard del rugby della Nazionale, non ci nascondiamo certe sue rigidità sul piano strettamente tattico, una certa monocordità nella preparazione delle partite. Forse per il post mondiale è arrivato il momento per un coach più giocatore di scacchi, più da bordo campo e meno "da allenamento", più psicologo e meno "lavoratore" . A patto di non tradire o peggio misconoscere, la mole incredibile di ingrato lavoro fatto per il bene di tutti.
Adesso però la questione cruciale è mettere Mallet nella condizione di lasciare la firma sul suo mandato con quella partita a Dunedin, Nuova Zelanda, contro l’Irlanda alla Coppa del Mondo. Buon lavoro.


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