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Buon risveglio, bella Ofelia

Creato il 28 aprile 2010 da Massmedili

Buon risveglio, bella Ofelia

E va bene, ho sempre avuto un debole per quell’aria da patatina che ha sempre sfoggiato Natalie Merchant.

Di padre siculo (Mercante il cognome originale) e madre irlandese (O’Shea), cresciuta nel Massachusets, chissà che razza di crapa deve avere la signora, classe 1963, convinta vegetariana dai 17 anni (ma si è subito rimessa a ingoiare bistecche quando è rimasta incinta della figlia), una delle più note e assertive ecologiste nordamericane, femminsta furibonda, fondatrice del gruppo pop anni 90 10.000 Maniacs in cui è entrata a 18 anni e uscita a 32, poi cinque dischi solisti in tutto, ma di quelli che pesano.

In un certo senso è rimasta la sola cantautrice arrabbiata della sua generazione in servizio permanente effettivo: Sheryl Crow ha virato verso il pop, ha avuto una relazione con ciclista texano e bushiano Lance Armstrong, è scampata a un cancro al seno e pensa ad altro. Michelle Shocked è tornata alle sue radici mormone sfornando dischi di Godspell duri e puri uno dietro l’altro. Tori Amos ha ormai quasi completato la sua metamorfosi da cantautrice a popstar. Joan Osborne oltre a fungere da vocaklist nelle occasionali riunioni dei Grateful Dead sopravvissuti si è data all’R&B. Edie Brickell, consacrata signora Simon (moglie di Paul Simon, di Simon & Garfunkel) ogni tanto sforna un disco senza convinzione, Di quella strepitosa tornata di incazzose femmine canterine che nella prima metà degli anni Novanta davano l’impressione che ci fosse un’altra America da cantare e da guardare, solo la piccola, tosta Natalie dalla voce potente resiste come se non fosse successo niente.

Anzi, se qualcosa è successo, è che Natalie ha ancora abbassato il tono della sua voce. Fin dai tempi del suo secondo disco Ophelia (1998) sempre più orientata verso il profondo, come un’educata e più composta Tom Waits femminile. I suoi dischi sono zeppi di echi folk, come si usa oggi ben miscelati.

Questo “Arisvegliati” arriva, come si affannano a sbandierare le note di copertina, dopo sette anni di silenzio. Sono poesie di autori vari  messe in musica, come chiariscono le note di copertina: dunque il disco va consideratoanche come un reading di poesia. Ma c’è anche la musica, con oltre 100 collaboratori che la hanno suonata. Godspel, fandanghi, suoni irlandesi, caraibici, africani, nenie dei nativi (un tempo indiani), two step, musica da camera per flauto e archi, un’orchestra da concerto, chitarra-e-basta e piano solo oltre a un paio di blues potenti e tirati, al limite del rock’nroll, olte ad echi russi e cinesi. Insomma, tutti i suoni che può chiamare folk oggi un paese come gli Stati Uniti che tutti ospita e che da tutti ha preso. Nulla viene risparmiato sotto il profilo della mescolanza di stili, ma non viene fatta confusione: ogni canzone (16 nella versione a un disco, 26 in quella due) ha il suo appropriato stile. 

E tutte hanno la sua voce profonda, precisa, pensosa, della saggia ragazza che ha tanto studiato. Ma che un poco, anche stavolta, ci ha anche emozionato.


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