Com'era il paesaggio intorno alla sua capanna?
Mentre Darjeeling è a non so quante migliaia di metri di altezza – un paesaggio alpino quindi – Rishikesh è in riva al Gange; ma qui il Gange è piuttosto piccolo: a volte cinquanta metri, e poi duecento, di colpo; a volte è strettissimo: venti metri, dieci metri, era la giungla, la foresta. Ai miei tempi non c'era nulla, solo delle capanne e un piccolo tempio indù. Non si vedeva mai nessuno. Nella foresta le capanne erano sparse su due o tre chilometri, a duecento metri una dall'altra, a volte centocinquanta metri o cinquanta. Da lì si saliva verso Lakshmanjula, la prima tappa del mio pellegrinaggio, per così dire. Lassù la montagna è abbastanza alta. C'era una serie di grotte e in quelle grotte venivano dei religiosi, dei contemplativi, degli asceti, degli yogi.
E lei come aveva scelto il suo guru? Era Swami Shivanananda, ma a quell'epoca era sconosciuto, non aveva pubblicato nulla (in seguito ha pubblicato circa trecento volumi...). Prima di diventare Swami Shivanananda era stato medico, aveva una famiglia, conosceva benissimo la medicina europea avendola praticata, credo, a Rangoon. E poi un bel giorno aveva abbandonato tutto. Ha abbandonato gli abiti europei ed è venuto, a piedi, da Madras a Rishikesh. Ha impiegato quasi un anno a percorrere il tragitto. È un uomo che mi interesava perché, dal canto suo, aveva una formazione occidentale. […] Era un uomo che conosceva bene la cultura indiana e che poteva comunicarla a un occidentale. Non era un erudito, tuttavia aveva un'esperienza himalayana piuttosto lunga: conosceva gli esercizi dello yoga, le tecniche della meditazione ed era medico: di conseguenza capiva bene i nostri problemi. È quindi lui che mi ha fatto un po' da guida nelle pratiche di respirazione, di meditazione, di contemplazione. Tutte cose che sapevo a memoria, in quanto non solo avevo ben studiato i testi e i commentari, ma anche sentito altri saddhu e contemplativi a Calcutta, nella casa di Dasgupta e a Santiniketan, dove avevo incontrato Tagore: si aveva sempre occasione di incontrare qualcuno che aveva già praticato un certo metodo di meditazione. Conoscevo quindi un po' più a fondo quel che c'è nei libri, ma non avevo mai provato.Mircea Eliade, La prova del labirinto, intervista con Claude-Henri Rocquet, Jaca Book, Milano 1980, traduzione Massimo Giacometti.E se andassimo tutti (no, tutti no: alcuni) in India, in qualche India possibile, (anche se abbiamo il doppio, quasi, degli anni che aveva Eliade quando partì da Bucarest negli anni Trenta dello scorso secolo), oppure in un angolo di India del mondo e ce ne fottessimo di queste ricorrenze, di questi riassunti, di questi falsi sguardi di prospettiva, di questi messaggi presidenziali di fine anno, degli auspici, degli aruspici, e via liberi, liberi e soli nel bosco, o nella giungla, in una grotta, o in cima a un colle, l'aria fina, l'ebbrezza di vedere accanto la volpe con un pollo in bocca, ma... sono io il pollo catturato, mangiato, ehi, servo a qualcosa, sono fuori dello schema previsto dall'allevamento nel quale tutti (no, tutti no: alcuni) siamo costretti. Prendiamo in mano secoli, millenni di cultura prodotta da mani e volti che ci assomigliano. Diventiamo schiavi solo del libero pensiero, disponiamoci «a ricevere qualsiasi rivelazione per il tramite della cultura... ad apprendere e a risvegliarci alla vita [mediante] lo spirito dei libri» (ibidem).