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"Buone feste" da Filomena Cecere

Creato il 23 dicembre 2011 da Fine

Ciao a tutti, manca pochissimo al giorno di NataleOggi, sotto la finestrella del 23 Dicembre, abbiamo il piacere di ospitare nel nostro blog gli auguri di una scrittrice che sprizza energia da tutti i pori.
Ringraziamo tantissimo la gentilissima...
Filomena Cecere ha da sempre una passione sfrenata per il fantasy e il gotico.
Ha pubblicato la trilogia di Elidar (I cavalieri di Elidar, 2008; Il Sacro Diaspro, 2009; Il pugnale di ghiaccio, 2010), Ego Edizioni, due istantanei Ritratti di sangue e La tredicesima costellazione (2009) e un libro a episodi Le streghe della palude (2011) editi da Gds Edizioni e diversi racconti pubblicati in varie antologie alcune delle quali in compagnia di autori noti del panorama fantasy italiano.  È vice direttrice del marchio editoriale Nocturna e curatrice delle sezioni new gothic e horror. È consulente editoriale per la collana fantasy Spade d’inchiostro di Edizioni della sera. Cura la collana “Le più belle storie della Bibbia” per GDS Edizioni di cui realizza le illustrazioni e scrive i testi insieme all’antropologo Roberto Carlo Deri. Collabora con noti magazine di genere ed è ideatrice e fondatrice dell’associazione culturale Chimera.
Ora lascio la parola a Filomena e ai suoi auguri di "Buone feste"
(copertina by Fine e Sogno)
Notte di Natale. Notte di canti, profumi, colori e luci che adornavano le case. Notte di giubilo, di doni, di gioia. Notte di sogni e speranze.
La città spogliava la veste febbrile della quotidianità e vestiva quella lieta e giuliva della festa. Gli uomini tornavano alle proprie abitazioni per banchettare con i familiari. Le donne, premurose e abile, creavano pietanze per allietare palato e vista e i bambini attendevano la mezzanotte per scartare quei giochi che presto avrebbero abbandonato per nuovi vezzi. Sophie non godeva dell’ilarità che contagiava quel mondo. A lei il fato aveva strappato più di un sogno, più di una speranza. Le aveva tolto la vita. L’aveva resa schiava della sete eterna. Creatura solitaria, indifferente alle sofferenze altrui. Sorda alle urla di terrore degli uomini che deturpava senza pietà. Refrattaria a ogni sentimento. Un giovane cuore imperturbabile e coriaceo. Proprio nella notte di Natale era giunta in quella città. Non le importava il nome tanto non sarebbe rimasta lì a lungo. Celava il volto cereo nell’oscurità di vicoli solitari e con astio spiava le famiglie che onoravano quel giorno. Invidiava la felicità altrui. Provava risentimento per coloro che gioivano per quegli affetti che lei avrebbe voluto per sé. Si rannicchiò in un angolo e per un breve istante ricordò la vita serena del suo lontano passato: una madre e un padre premurosi, pronti a provvedere ai suoi bisogni e i giochi spensierati di bambina. “Ragazzina!” le disse un uomo credendola indifesa e bisognosa di aiuto. “Cosa fai sola? Le strade sono ormai deserte. Non hai una famiglia che ti aspetta?”. Sophie non ricordava più i volti di coloro che un tempo chiamava cari, ma rammentava le carezze e i caldi abbracci che si contrapponevano al gelo che provava. L’uomo le si avvicinò. Con un balzo Sophie le fu addosso e affondò le sue zanne acuminate nei muscoli compatti e sodi del malcapitato. Squarciò la sua carne viva masticandone brandelli. L’uomo si dimenò, urlò, tentò di liberarsi dalla presa funesta, ma la giovane gli lacerò la gola e strappò la giugulare. Fiotti di sangue zampillanti fuoriuscirono dalla ferita mortale da cui lei si dissetò. Sorresse quel corpo fino a quando non fu sazia, poi lascio cadere a terra la carcassa inerte. Stava ancora inebriandosi del nettare denso appena gustato quando si accorse che in fondo al vicolo un giovane la osservava, illuminato dalla luce del lampione della via principale. Mille pensieri sfiorarono la mente di Sophie, ma una sola domanda la assillava: Quel ragazzo l’aveva forse vista compiere lo scempio? Lui poteva dare l’allarme, i cittadini coalizzati le avrebbero dato la caccia e quella città sarebbe divenuta il suo sepolcro, urna custode delle sue ceneri. Non poteva stare lì senza reagire. Affrontò le avversità come la sua natura le imponeva. Lei era una cacciatrice. Non sarebbe mai stata la preda. Camminò verso di lui. I passi si susseguivano in una danza progressiva e lesta. “Chi c’è lì?” chiese il giovane. La sua voce tremula nascondeva inquietudine e sospetto. Sophie arrestò la corsa. Quel ragazzo non aveva visto né lei né il cadavere dell’uomo riverso a terra col sangue che ancora lordava l’asfalto. “Chi sei?” chiese ancora. “Ombra” rispose lei con angustia. La giovane fece ancora qualche passo verso di lui, mentre il ragazzo rimase immobile, come impietrito da una morsa che lo costringeva a rimanere inerme. Solo quando anche Sophie entrò nel cono luminoso il volto di lui si distese. “Sei sola?”. Quella domanda sciolse in Sophie ogni dubbio che soffocò l’atteggiamento ostile e oculato abbandonandosi a una imperturbabile calma.  “Sì”. La ragazzina lanciò una breve occhiata nel vicolo da cui era uscita accertandosi che nessuna fonte luminosa rendesse visibile il suo ultimo pasto. “Io sono Ryan”. Sophie notò i lineamenti del giovane. Occhi profondi e neri. Sguardo sincero e audace. Mimica compassionevole. “Sophie” si presentò. Quel nome le scivolò sulle labbra senza filtri. Non lo aveva mai rivelato. Tanti quelli utilizzati nei secoli per nascondere al mondo una scomoda identità. Forse perché la sua sete era stata placata, ma Sophie non vide Ryan come una portata succulenta, ma un ragazzo dal carisma seducente che la metteva in uno stato di imbarazzo misto a sorpresa. Abbassò lo sguardo per nascondere quelle sensazioni estranee. “Ce l’hai una casa, Sophie?” domandò ancora. Il tono impresso nella voce di Ryan assunse una sfumatura rassicurante e mite che confortò il cuore cristallizzato della giovane. Pur mantenendo lo sguardo fisso al suolo, scosse la testa. “Non ho casa né famiglia. Non ho amici né compagni di viaggio. Sono invisibile agli occhi di coloro che trascorrono vite nell’abbraccio del calore domestico”. Ryan mosse qualche passo e proseguì sul marciapiedi tra gli ultimi ritardatari. Sophie camminò al suo fianco. “Questa città brulica di quelle che tu chiami Ombre” disse Ryan sommesso. “La povertà e la solitudine sono piaghe che offendono la società”. Dall’alto dei suoi tanti secoli di Non Vita, Sophie si meravigliò. Non aveva mai sentito parlare un giovane con tanto impeto per una infezione da cui non era affetto. “I miei genitori sono volontari e gestiscono un’associazione benefica impegnata a donare un pasto caldo ai clochard. Io sono cresciuto seguendo il loro insegnamento”. La spiegazione era servita a chiarire l’immagine di quel giovane tanto attento ai diseredati. “Li cercando tra vicoli e cassonetti per offrire loro un riparo per questa Santa notte, quando ti ho incontrata”. Ryan raccontò le sue esperienze di vita poi chiese “Parlami di te”. Il silenzio fu la risposta. “Preferisci non ricordare. Posso capirti. Ma d’ora in poi non dovrai più temere né la fame né la sete” la rassicurò. Ma come poteva lui comprendere certe sofferenze, pensava Sophie. Come poteva concepire la rabbia crescente quando la sete reclamava il giusto tributo. Come poteva immaginare una vita di efferati omicidi in nome di un istinto che non le dava pace. No, lui non poteva capire e lei non poteva darle nessuna spiegazione. Rimasero in silenzio avvolti dal suono dell’oblio. “Siamo arrivati” disse d’un tratto Ryan spezzando la quiete. Il ragazzo guardava l’ingresso malandato di un vecchio edificio. All’apparenza un magazzino abbandonato. “Non farti ingannare, l’interno lo abbiamo reso confortevole” spiegò con un sorriso rassicurante. A Sophie non importava. Lo avrebbe seguito anche in una sudicia colluvie perché la compagnia di quel giovane placava i suoi istinti funesti. Entrarono. Una possente luce al neon la costrinse a socchiudere gli occhi troppo abituati alle tenebre. Quando li riaprì trovò il conforto di sguardi ilari e giocondi dei familiari di Ryan che confortavano e nutrivano i reietti. Madre, padre, sorelle e fratelli impegnati in una causa comune. Come legata a filo doppio seguiva Ryan camminando spedita tra gli scanni di legno che ospitavano uomini e donne di ogni età. I loro occhi esprimevano il tormento di una vita di stenti più degli stracci che indossavano. E i solchi sul viso narravano di duri inverni passati al freddo delle arterie metropolitane. I volontari invece mostravano espressioni serene e appagate. Il loro operato concedeva vigore alle braccia operose. “Sei arrivato finalmente! Non volevamo cominciare senza di te” esordì la madre di Ryan. “Lei è Sophie” la presentò. “Può restare con noi e mangiare alla nostra mensa” propose senza remore. “Ben arrivata. Una nuova figlia è sempre la bene accetta!” esordì la donna con un sorriso amorevole e lo sguardo premuroso. Sophie sentiva di non meritare tante attenzioni, ma le ghermì avidamente. “Hai fame? Hai sete?” chiese Ryan passandole una mano tra i capelli scomposti. “Sempre” rispose serrata. Lo sguardo di Ryan divenne beffardo. I suoi canini si allungarono. La voglia di carne fresca e il profumo di sangue gli procurò una salivazione opulenta. “Allora serviti” la invitò. Sophie sorrise, ora capiva l’attrazione e il senso di protezione che Ryan le procurava. Erano complici di una stessa natura. La luce si spense e Sophie udì solo le grida mortifere di uomini senza speranza, il liquido vitale che le scorreva caldo nella gola e il tamburellare del suo cuore mentre saziava i sensi, guidata dall’abbraccio di una nuova famiglia.


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