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(Buried) Rodrigo Cortés, 2010 (Spagna), 95' uscita italiana: 15 ottobre 2010 voto su C.C.
Quando, nel 1948, Alfred Hitchcock si mise in testa di girare un film che fosse concettualmente composto da un unico piano sequenza (motivi pratici costrinsero il regista a montare frammenti da venti minuti ciascuno, per ovviare al problema del cambio della bobina) in molti lo considerarono un folle, convinti che sarebbe stato impossibile ottenere una resa efficace, tenendo anche presente il genere di storia che veniva trattata. Eppure Rope (Nodo alla gola) fu un discreto successo di pubblico e critica, ed è considerato ancora oggi un punto altissimo della cinematografia del Maestro della suspense, proprio perché appare l'ennesima dimostrazione che alla base del pathos non ci debbano essere per forza ariosi movimenti di macchina e coreografiche esplosioni, ma bensì creatività e conoscenza del mezzo. Lo spagnolo Rodrigo Cortés, mezzo secolo dopo, tenta di mettere in scena qualcosa di similmente rivoluzionario, riducendo lo spazio scenico ai pochi centimetri quadrati di una vecchia bara di legno e lasciando il proscenio ad un uomo terrorizzato in balìa di un blackberry con menù in iracheno. Paragoni blasfemi a parte, il risultato è piuttosto convincente.
Ryan Reynolds interpreta un contractor americano, incaricato di trasportare un qualche genere di merci nel deserto dell'Iraq, che in seguito ad un'imboscata si ritrova intrappolato in una bara e sepolto sotto qualche metro di terra. Le esose richieste dei suoi sequestratori (che gli vengono comunicate con un cellulare, unico contatto tra l'uomo e il mondo esterno) e la necessità da parte delle autorità americane di mantenere un basso profilo circa la sua disavventura, complicheranno ulteriormente la faccenda.
La scommessa di Cortés è per la maggior parte vincente: l'ora e mezza di narrazione risulta molto avvincente, senza cali di tensione o situazioni ridondanti. Il regista spagnolo (autore anche del montaggio), con la collaborazione della efficace fotografia di Eduard Grau, riesce coraggiosamente ad attaccare molti dei cliché del genere, ottenendo la massima resa da ognuno dei pochi elementi scenici messi a disposizione dalla trama – un coltellino, una fiaschetta “alcolica”, l'accendino, qualche pillola, oltre al famigerato telefonino. Ovviamente è richiesta da parte dello spettatore una discreta sospensione del raziocinio, che faccia passare in secondo piano alcune forzature della storia, ma la ricompensa per questo momentaneo allontanamento dalle logiche della realtà viene ripagato abbondantemente dalla pellicola, che tiene incollati alla poltrona grazie al suo ritmo serrato e allo stile “ringhiante” e un po' naif che Cortés predilige. Buried è insomma l'esempio emblematico di come sia più redditizio investire in fantasia ed estro piuttosto che in pretenziosi (e costosissimi) kolossal. La terza, ma anche la quarta, la quinta e la sesta dimensione possono essere facilmente trovate nella mente di chi guarda. Senza bisogno di occhialetti speciali.
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