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Il viaggio è come lo show: it must go on. Alle sei di pomeriggio sono di fronte ai trasporti La Veloz, che gestisce i traxi che vanno a Bermejo, alla frontiera con l'Argentina. Mentre l'auto segue le curve della strda, il cielo diventa di fuoco e i profili scarni delle montagne si tingono di varie tonalità di blu, mentre i vitigni scorrono ai lati della strada. Si fa buio pesto su una strada senza lampioni. Ogni tanto appare all'improvviso un asino, una mucca, una capra, un cane o delle persone. L'autista impreca contro i padroni degli animali e racconta tutti i suoi aneddoti di incontri ravvicinati con mammiferi suicidi. Poi armeggia per un quarto d'ora con un sacchetto di foglie di coca, selezionando le migliori nel tratto di strada con più curve. In sottofondo c'è una musica locale che parla di mucche, cavalli e donne ed è un misto tra musica llanera colombo-venezuelana e una ranchera messicana. In altre parole una vera schifezza.
Al posto di blocco prima di Bermejo scendo per le formalità doganali. In dodici secondi netti ho il visto d'uscita sul passaporto. Ripartiamo. Quando il taxi si ferma, l'autista mi informa - con faccia innocente - che abbiamo passato da un pezzo la frontiera e che non sapeva che volevo andarci (certo, colleziono visti d'uscita per purto piacere!). Riprendo un altro taxi, con un autista ancora piú autistico del precedente, che semplicemente non ascolta quello che gli dico e tenta di indovinare a caso. Riformulo la domanda in vari modi: "frontiera argentina", "passaggio verso l'Argentina", "il posto da cui partono i bus per Buenos Aires". Il tassista sembra spiazzato da tante varianti e alla fine mi lascia di fronte ad un cartello con scritto "boleteria". Per due bolivianos compro un biglietto che mi permetterà di attraversare un fiume su una barca a motore. Dall'altro lato una baracca con un cartello "migracòn" mi dice che sono in Argentina. Dentro, tre pingui gendarmi che mi ricordano i sottuficiali della mia visita militare (non proprio la memoria più bella della mia vita) stanno guardando una televisione con volume troppo alto, bevendo mate e mangiando empanadas. Ci vuole un po' prima che il più atletico dei tre prenda il mio passaporto e inizi una lotta incruenta ma agguerrita contro il computer. Quindici minuti dopo avrò il mio visto d'entrata.
Ora devo trovare Flecha Bus che dovrebbe portarmi a Buenos Aires in 28 ore più o meno: sono le undici di sera. L'ufficio è illuminato, ma l'uomo un po' rincoglionito che sta guardando la televisione non sa niente. Bisongna aspettare "el muchacho" che è andato a cenare, ma non si sa dove. Dopo una mezz'ora scende da una moto un ragazzotto cicciottello che mi spiega cosa mi aspetta: taxi per Oran (Camus non c'entra), bus da Oran a Guermes (partenza alle 2 arrivo alle 5) e bus da Guermes per Buenos Aires (partenza alle 8.30 arrivo alle 4 del giorno dopo). Evviva!
Il tassista che porta me e il ragazzotto ad Oran sta ascoltando - in omaggio a tutti gli stereotipi - una trasmissione radiofonica dedicata al tango. Ad Oran arriva anche la sorella del muchacho che mi spiega i suoi problemi di salute: ha una valvola cardiaca artificiale, deve prendere anticoagulanti e a causa di un incidente in moto ha una caviglia che sembra un melone. Saliamo sul bus. Alle cinque l'aiuto autista mi sveglia. La stazione di Guermes è mezzo addormentata. Ci sono una decina di persone che stanno aspettando e un ubriaco molto rumoroso che urla cose incomprensibili al tipo della bigliettertia che lo ignora. Mi siedo sull'unica panchina vicino a cui qualcuno ha vomitato di recente. Verso le sei vado in una specie di caffetteria dove ordino un sandwich di lomito (carne, mayonese, uovo fritto) e un mate. La televisione è accesa e guardo la fine della partita del campionato francese di rugby Toulouse - Stade Français, che ha la solita maglietta rosa a motivi floreali e in cui gioca il quasi compaesano Mauro Bergamasco (il fratello Mirko è assente). Per la cronaca vince il XV dello Stade per 22 a 15, nonostante quattro calci piazzati e un drop di Jonny Wilksinson.
Alle otto e mezzo riparto sul bus Tata Rápido. Il facchino che carica il mio zaino vuola una propina e si arrabbia quando non gliela do. L'Argentina sarà anche uno degli stati più sviluppati dell'America Latina, ma è anche l'unico in cui le compagnie di trasporto non pagano i facchini. Il viaggio da Guermes a Buenos Aires è un infinito paesaggio piatto di soli pascoli. Per ore e ore si vedono solo alberi, prati e mucche. Ogni tanto una città immersa nel torpore domenicale, un po' triste e decadente, con molta immondizia lasciata qua e là. La pausa pranzo si fa in un ristorante anni '70: uno stanzone immenso prieno di tavoli e sedie in similpelle. Anche il cibo - cotoletta con purè - sembra sia stato cotto alla stessa epoca. I prezzi, me ne sono già reso conto, sono almeno il doppio o il triplo di quelli boliviani. Il pomeriggio passa in un secondo, con tre film guardati a spezzoni ascoltando la mia musica, con una sensazione di deja vu. A tratti mi sento come in un video musicale: the tormented singer watching the landscape pass by.
Poi verso le nove di sera il miracolo. Dopo mesi di viaggi in bus - molti quelli notturni - avviene il fatto strano, più che altro non sperato: mi addormento. Non è il sonno semicosciente interrotto da luci e rumori, tra una frenata e l'altra. Questo è vero e proprio dormire, per ore, senza memoria alcuna. Mi sveglio alle tre di mattina, felice. Verso le quattro il bus arriva a El Retiro, la stazione di Buenos Aires che sembra un aeroporto: tirata a lucido, caffè aperti 24 ore e anche delle edicole (l'ultima l'ho vista a Rio de Janeiro tre mesi fa) con dei veri giornali patinati. Per quattro dollari prendo un mate e due mini-croissants aspettando di poter arrivare in albergo senza il rischio di farmi tagliare a pezzi dal guardiano di notte. Sono le sei di mattina. Delle uime 85 ore solo 8 le ho passate in un letto .
Sleeper
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