Knock knock knockin’ on heaven’s door
Chiedo scusa in anticipo a chi mi rimprovererà di citare ancora i Gun’s n’ Roses ma a volte prima di cominciare a scrivere canticchio. Bussare alle porte del paradiso. E’ un po’ quello che fanno tutti i ragazzi che passano al professionismo. Il paradiso. Il sogno non solo di ogni notte ma anche di tutti i giorni rubati al resto. Giorni di fatica, di sacrificio, di rinunce. Perché inseguire un sogno non è mai facile. Inseguirlo sulla bicicletta è uno dei modi più difficili che esistano. Tutto si dà all’asfalto pur di arrivare a quella porta. Ma il paradiso, almeno sulla terra, non esiste. Dopo quel passaggio, tutto deve essere difeso con le unghie e con i denti. Non solo il talento, non solo il posto conquistato con fatica. Anche la dignità. Anche la giustizia. Il ciclismo è come la vita vera, anche nelle brutture.
Pochi giorni fa il CONI ha deciso che Mauro Santambrogio sarà il volto che rappresenterà il ciclismo nella feroce campagna contro il doping. Un pentito, dicono. Che ha confessato i suoi misfatti, ha collaborato con la giustizia, ora ha una nuova squadra, una nuova possibilità per la sua carriera sportiva. E i giornalisti non hanno di che rimproverarsi perché sono accorsi sensibili e pietosi quando minacciò di suicidarsi. Tutti hanno la coscienza a posto. Le camicie sono lavate, le divise pure. Si può ricominciare. Un volto pulito per forza a rappresentare tutti quelli che la faccia se la sporcano sì ma di sacrifici, di sudore, di chilometri fatti sputando l’anima senza dirlo a nessuno se non a sé stessi. Di contro, in questi giorni, nel solito semisilenzio, sono scaduti i giorni di squalifica di Stefano Agostini. La stessa pena di uno condannato per EPO, solamente per aver usato distrattamente una pomata antinfiammatoria ed averla anche dichiarata nei controlli. Insomma, una cosa poco furba se effettivamente fatta per lo scopo che si crede. Questa storia oramai la conoscono quasi tutti. E chi conosce Stefano sa che è un ragazzo intelligente, con un talento autentico e senza una vera buona stella. La vittoria al Campionato Italiano quando era un Under 23 e correva con la Zalf, gli occhi lucidi di una passione come può essere solo quella che lega un’anima alla bicicletta, l’arrivo in Liquigas, il dream team italiano, il trampolino di lancio. Invece quel paradiso è stato ruvido asfalto. Prima gli infortuni e poi la squalifica. Un ciclista non lo si sconfigge mai in bicicletta, sono uomini d’acciaio. Le cadute non bastano, le ferite non spengono niente. E le cicatrici servono solo a ricordare che siamo stati forti a non piangere per il dolore. Ma il resto, il resto è un’altra cosa. L’accusa di doping, la squalifica, il licenziamento, ti rompono qualcosa dentro. La fiducia. Il paradiso si è rotto una volta per tutte come un giocattolo vecchio, come quei puzzle che non hanno più qualche pezzo e siamo costretti a buttare. Buttare un sogno? Si può? Non per colpa di altri. Non per un sistema di giustizia sommaria e di strane trovate pubblicitarie.
Ieri sera, Stefano ha scritto su Facebook a tutti i suoi fans che ancora lo sostengono e credono in lui, nel suo ritorno. Ha ringraziato quelli che gli sono stati vicini e anche quelli che gli hanno voltato le spalle. Ha ragione. Perché vedere quelle spalle gli ha aperto gli occhi, lo ha fatto crescere, anche se nel solito modo che usa la vita. A frustate. Una al giorno, sempre più forte, per tutti quei lunghi mesi passati ad aspettare che qualcuno gli dicesse che cosa doveva fare, se tornare a correre oppure smettere. Intanto, adesso ha un’altra vita, un altro lavoro. Lo stesso desiderio di viaggiare, una settimana qui e un’altra là, e di tenere con sé la bicicletta. Perché un amore così è forte e doloroso come le cicatrici che non vanno via. Ma al resto, a quello che aveva sognato, non ci crede più. No, questa non è una squalifica come un’altra. Non gli hanno rubato solo quindici mesi della sua vita, non gli hanno rubato solo il sogno. Gli hanno rubato la possibilità di ricostruirlo. E ricostruire ci salva sempre. Quando ci sentiamo a pezzi riusciamo solo a pensare di dover rinascere, di dover rimettere assieme tutto: mattoni, cocci. Non importa chi li ha distrutti, non importa se ci siamo rimasti sotto e fa ancora male qualcosa. Riprendere dopo il terremoto, grande o piccolo che sia, ci ha sempre salvati. Stefano si è salvato come ha potuto. Da solo. O forse salvo non lo è ancora. Perché ci sono i suoi venticinque anni che bussano a quella porta di paradiso distrutta. La testa dice di no ma il resto, le gambe, il cuore, non sono poi troppo d’accordo. Ci sono cose dalle quali non possiamo scappare. C’è la polvere di tutto che scivola via dalle dita e c’è qualcosa che ancora brucia, come lui stesso dice. C’è la solita ipocrisia, il perbenismo, la superficialità di chi vorrebbe che questo sport diventasse il più bello del mondo e riesce a mettere in vetrina soltanto le mele marce.
Penso alla prima volta che ho visto Stefano. E’ passato qualche anno. Lui era stagista alla Liquigas-Cannondale e quel giorno tutti i brianzoli andavano a stringere la mano a Ivan Basso. Io ero una ragazza che stava scoprendo la strada e che si stava innamorando profondamente del ciclismo. Gli avevo chiesto una foto. Forse eravamo un po’ innocenti e stavamo bussando alla porta del paradiso. Forse le bastonate servono molto di più delle carezze: servono a crescere, a capire che si è forti anche quando gli altri dicono di no, ad aprire gli occhi. Aprire gli occhi. Significa non credere più nelle favole, a Babbo Natale o al Principe Azzurro. Ma non vuol dire certo dimenticare il coraggio, le briglie dei sogni, anche di quelli infranti che sono i pezzi di noi più preziosi e più fragili. Non vuol dire restare indifferenti o rassegnati di fronte alle ingiustizie. Non vuol dire stare fermi. Perché andare controcorrente sarà sempre la mossa vincente. Forse agli altri pesci risulterai un cretino. Ma è così che si risalgono i fiumi.