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“Butcher’s Crossing” di John Williams

Creato il 24 luglio 2013 da Sulromanzo
Autore: Filippo BelacchiMer, 24/07/2013 - 11:30

John Williams, Butcher's CrossingMattatoio numero zero.

1860, Colorado, Rocky Mountains, Caccia grossa al bisonte.«E durante il giorno, mentre sudavano, sventravano, e squartavano nel disperato tentativo di tenere il passo con Miller, sentivano il suo fucile martellare implacabile, monotono e ossessivo nel silenzio. E martellare anche sui loro nervi, pestandoli e scorticandoli fino allo stremo.» (John Williams, Butcher’s Crossing, Fazi editore, 2013, pag. 210).

Miller è il capo della spedizione, grande esperto e interprete della natura, miscuglio portentoso d’istinto e raziocinio. Un demonio, lo si direbbe, per usare la terminologia di Tex Willer. Ma l’uomo, questo uomo, pare essere anche un demonio inteso come avversario – immaginate Giacomo Leopardi col Winchester – del Dio che vede e provvede; quello che ha creato un mondo fatto di neve, montagne, corsi d’acqua, foreste e grandi distese, e selvaggina; questo demonio di Miller perverte, piega ciò che Dio ci ha dato ridisegnando, sfidando lo schema, l’armonia che, la leggenda dice, avevano trovato gli indiani d’America con il loro Dio.

Lo vedeva stagliarsi rozzo, scuro, irsuto contro la neve candida; come un abete visto da lontano, si distingueva dal paesaggio, ma al tempo stesso, inevitabilmente, gli apparteneva. Di mattina lo guardava sprofondare nella foresta e aveva sempre l’impressione che a farlo scomparire non fosse tanto la distanza, quanto la sua capacità di fondersi con il paesaggio, fino a diventarne un elemento. (pag. 264).

Chi guarda e osserva Miller è un giovanotto di 20 anni  che si chiama Willam Andrews. Ha appena lasciato Boston e l’università di Harvard per andare verso ovest alla ricerca della natura selvaggia. Arriva a Butcher’s Crossing, piccolo centro che vive grazie al commercio di pelle di bisonte. Varcando la soglia di Butcher’s Crossing, come si attraversano le porte magiche, divamperà un mondo vasto come un incendio, come il cielo, come una bufera. Come il nulla.

Sono quattro a far parte della spedizione. Devono raggiungere un punto, una gola tra le montagne rocciose del Colorado dove Miller dieci anni prima, da solo, vide l’Eldorado dei bisonti, una quantità incalcolabile di mandrie pressate l’una contro l’altra. Trovare di nuovo quel posto significa diventare ricchi, lasciare a bocca aperta gli abitanti sonnolenti di Butcher’s Crossing, ma soprattutto significa prendere tutto quel che si può. E anche di più.

Lì troveranno i bisonti che vengono descritti come un branco di pesci il cui dorso s’intravede sulla superficie dell’acqua, una moltitudine di creature. Come pesci, sì, ma anche come militari della Seconda Guerra Mondiale, o della Prima, o come gli uomini nelle grandi città, o nelle piccole, il nostro ignaro brulicare di vita che si muove senza direzione: incomprensibile la loro arrendevolezza anche a un cacciatore esperto come Miller; sembriamo noi, la nostra vita, a capo chino, bruchiamo, e qualcuno da dietro un masso spara implacabile. E un bisonte corre per un centinaio di metri e poi cade. Mentre gli altri continuano a brucare, senza spostarsi, senza apparentemente accorgersi, o, per forzare un po’ le cose, senza volersi accorgere che di fianco a loro, la morte ruggisce, morde, fa un respiro e  ricomincia: ruggisce, morde e respira, ruggisce morde e respira.

All’inizio non fa bello, anzi fa brutto, quando la carneficina comincia, poi, come a tutte le cose, ci si abitua. Bisonti continuano a cadere, e carcasse scuoiate se ne stanno a pochi metri da loro, e cadono, come in un incubo che non si ferma, non si può fermare. Basta così, dice il lettore, ne avete avuto abbastanza. Se dio ha il suo disegno, l’uomo, Miller, ne ha un altro, pelli di bisonte a volontà, che vuol dire sterminio, vuol dire anche qualcos’altro che mi sfugge e che tuttavia provo ugualmente a formulare. Ecco cosa vuol dire: significa non avere una relazione con gli altri, con tutto ciò che non è me, significa vivere su base utilitaristica. Questo potrebbe suonare come un discorso politico ma è l’aspetto che meno m’interessa. Se mi muovo perseguendo esclusivamente il mio utile, non curandomi dei costi, la mia vita diventa nulla, niente, la possibilità di un incontro viene mortificata.

A Butcher’s Crossing c’è Francine, una bella prostituta dalle cosce sode, i piccoli piedi e il pube biondo; è attratta dal giovane vergine e delicato, William Andrews; lo invita  nella sua stanza, gli piace perché, a differenza dei clienti abituali, non ha ancora i palmi delle mani ruvidi. Pochi giorni prima di partire per la spedizione si trovano nudi uno di fronte all’altra, ma lui fugge dalla stanza, proprio quando sono sul punto di fare la cosa selvaggia. Lei lo vuole non come cliente ma come ragazzo, delicato, incerto, gentile, smarrito, ma lui non riesce, fugge perché pensa alla moltitudine di uomini che su quel corpo si sono fiondati.

In quegli istanti sente qualcosa, mentre pensa alla mandria di uomini che ha attraversato quel corpo; lo stesso sentimento, troppo spaventoso per farsi pensiero e mostrarsi quindi alla mente, lo proverà di nuovo la prima volta che macellerà un bisonte. Più tardi, nel suo sacco a pelo, il narratore ci dice che Will Andrews stabilisce una tenue connessione tra quella notte in cui è fuggito dal corpo di Francine e l’esperienza provata nell’aver annientato il corpo di un bisonte, il quale,  pochi istanti prima, era: «Fiero, nobile e solenne, nella sua vitalità, mentre ora, degradato e indifeso, un pezzo di carne inerte, spogliato di se stesso, della sua nozione di sé, gli dondolava di fronte, grottesco e beffardo.» [questa citazione è stata da me tradotta dalla copia digitale in originale di Butcher’s Crossing].

È questo sussulto di cognizione, questa associazione che lo fa vomitare quando imbrattato di sangue fino ai capelli svuota il corpo del bisonte. Sente che là, oltre quell’azione che sta compiendo, quel lavoro da macellaio, c’è l’essenza di qualcosa, cioè la morte, il niente. Come forse quella donna, Francine, spogliata dai maschi, che pagano per farci sesso, che utlizzano il suo corpo. Pagare per godere del corpo di una donna; deve suonar strano a un ragazzo che si spinge così lontano dalla sua città per incontrare la natura selvaggia, cioè a dire l’indomabilità, la natura che cresce come vuole lei, come pare a lei, eccessiva, forse senza scopo ma barocca, violenta, piena di sfumature, esagerata, taboccante, lontana dall’utilità. Bene, il mondo degli uomini è in fondo un mondo i cui legami che non siano utili, dominati dall’utilità, non esistono, non devono esistere.

Will Andrews pare capirlo, ricorda infatti Joker, alla fine di Full Metal Jacket. Capisce che forse la sua ricerca della natura selvaggia non era altro che un modo per trovare un luogo che potesse contenere la sua solitudine. O meglio: la solitudine che intrasentiva nel mondo e che lui scambiava per desiderio di altrove, di natura selvaggia, di lontano. Questo lo capisce. Al mondo si è soli, non esistono, in questo mondo, relazioni che nutrono.

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