Bye-Bye Fiabe – La Fata Turchina

Da Thefreak @TheFreak_ITA

La Fata Turchina

Era per via dei tacchi. Il problema era tutto lì. Avrebbe anche potuto soprassedere al sapore  sintetico, cancerogeno, del petrolato tra i denti.

17 cm di pura plastica trasparente erano troppo. Decisamente troppo. Perfino per lei. Una serie di vesciche allineate alla base delle dita dei piedi.

Le facevano male. Dannatamente male.

Quanto al resto, non si lamentava. Tutto sommato, le mance erano buone. C’era perfino chi le rifilava un bel pezzo da cinquanta dentro l’ elastico del bikini. Paillettes color oro, così come piacevano al signor Karsten, il tizio che doveva aver barattato tutti i suoi capelli in cambio di un conto in banca con troppi zeri per un solo essere umano.

“Sei la mia fata…”  le diceva ogni volta, mentre lei si esibiva in una danza privata, decisamente molto privata, per i suoi occhi schermati dietro un paio di lenti violacee.

“Sei la mia fata…”. Fata. Quel broker in completo Prada non sapeva quanto, nella sua beata e ben-pagante ignoranza, avesse ragione.

Ché, se solo si fossero incontrati in un altro tempo, un diverso ieri popolato da uomini con una morale e donne dal capo coperto, lei gli avrebbe potuto fare rifilare una ramanzina di tutto rispetto. Lo avrebbe ammonito. Rimproverato. Si sarebbe potuta sentire così tanto superiore a lui. Lei. La guida spirituale senza macchia sul suo vestito rivestito di luce turchina. L’ inamovibile maestrina di buona condotta per tutti quei ragazzini scapestrati. Come quel burattino dal naso indeciso.

La verità è che il tempo era passato senza alcuna clemenza. E quei ragazzini erano cresciuti fin troppo. E ora lei, per venti euro l’ora, si spogliava per loro in un locale di Amsterdam.

Una stripper. Ecco cosa ne era stato dell’ immacolata e venerabile Fata Turchina.

Niente più ” Sei stato molto cattivo…” con tanto di vocina al gusto di marmellata alla ciliegia. A nessuno dentro il “Pink Dream” interessava sentirla parlare. La realtà, la realtà quella vera, l’aveva azzittita. Brutalmente. Senza diritto d’ appello. Né di replica. Le luci si erano spente nel palcoscenico delle loro storie. Punto.

Il vero dramma per loro, per tutti i personaggi fiabeschi, era stata la totale mancanza di preavviso. Nessuno aveva presentato loro una lettera di licenziamento con tanto di buonuscita. “Thank you and goodbye”. Tutto qui. Semplicemente, da un giorno all’altro, i genitori avevano smesso di raccontare le fiabe ai loro bimbi, sostituendole con un bel videogame sparatutto. Sangue in cambio di sogni. Proiettili in cambio di incantesimi.

E si erano dovuti riciclare. Inventarsi un mestiere. Trovarsi una nuova occupazione in un mondo che non aveva più tempo, né voglia, di star lì a blaterare di ” C’era una volta…”. La gente ora si interessava di orari. Battiti precisi di lancette. “Alle 7, 45 a.m. il Dow Jones…”.

Così lei aveva usato quello che le restava. La sua innegabile bellezza. Si era tinta i capelli. Un biondo miele caldo. Si era fatta applicare delle unghie finte che le impedivano perfino di comporre i tasti sul suo cellulare. E..beh…si era dovuta trovare un nome nuovo. Uno di quelli adatti per “Il mondo dopo le Fiabe.”

Miss Adrielle. 26 anni sulla carta d’identità e un appartamento in condivisione con uno studentello di architettura, perennemente impegnato nella sacra arte del bong+twitter per descrivere esattamente cosa no, non stesse affatto combinando nella sua vita.

Miss Adrielle. Alias La Fata Turchina, secondo uno scrittore ormai passato a sicuramente-migliore-della-sua vita.

Miss Adrielle, cui restavano 15 minuti prima di dover salire nuovamente sul palco per il suo numero. Nudo quasi integrale.

Nel suo camerino privato, si chiuse in un accappatoio di spugna azzurra, per non prendere freddo. E, sotto tutto quel mascara, le sarebbe venuto da piangere, se solo avesse avuto delle lacrime. Perché le fate possono spogliarsi a tempo di musica, ma il condotto lacrimale è il loro tallone d’ Achille. Afferrò un pacchetto di Lucky Strike da venti e un accendino a forma di balena. Perché certi gesti non sono altro che una forma di nostalgia. E pensò che, in fondo, alcune cose non cambiano mai. E che, in un modo o nell’ altro, a questo mondo tutti dobbiamo sopravvivere. Nel bene. Nel male. O nel meno peggio.

Percorse il corridoio di luci rosse e moquette violacea per uscire dal retro e fumare in santa pace, finalmente.

Si diede una risistemata ai capelli, in modo da renderli più vaporosi. I tonfi sordi dei suoi tacchi da spogliarellista risuonavano come rintocchi. Era ancora gloriosa. A suo modo. In un certo qual modo. Tutto sommato.

Cominciò a mordicchiarsi le labbra, strappandosi via brandelli di rossetto d’ un fucsia allucinatorio. Nervosamente. E non badò neppure al ragazzo che le strillava nelle orecchie che doveva sbrigarsi, che lei non era una diva e che se  non si dava una mossa poteva anche raccattare la sua borsa di vernice celeste e sparire per sempre da lì.

Aveva bisogno di soldi. Un disperato bisogno. Non poteva fare altrimenti. Non poteva che rivolgersi a lui. Malgrado il solo pensiero le aprisse uno squarcio all’altezza dello stomaco. Lo odiava. Eppure era il solo da poter chiamare.

E sullo schermo bluastro del telefono fece comparire il nome ” Lucignolo”.


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