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C'è chi li chiama solo vestiti.
Chissà, forse non si è mai accorto come la materia di un pantalone morbido misto cachemire si staglia naturale sul sedile di un autobus, ad esempio, o forse l'autobus non l'ha mai preso.
Forse non gli è nemmeno mai interessato prestare attenzione al modo in cui una gonna possa spiccare per altorilievo o bassorilievo, a seconda del movimento del bacino, a come alcuni tessuti siano più rigidi e ostili alle grinze, simili al marmo, e altri si adattino meglio alle forme di un corpo, nemmeno fossero argilla.
Ruches libertine da sfondi d'abiti troppo conformisti, pieghe più o meno volute che modellano sagome, personalizzandole su portamento, trasformandole in materia viva.
Stoffe grezze che aspettano solo di essere atteggiate, vissute, assemblate all'estro di movenze insolite.
Guanti che oltre a coprire mozzano, esaltando la fisicità di un polso, gambe che si accavallano e tubini che ne inseguono la linea, schiene che si voltano e camicie inamidate che conducono il loro stampo al limite della comune vestibilità.
Indossate, fluttuate, generate la vostra migliore posa e il prodotto finale che andrete a scolpire sarà tridimensionalità a passeggio.
Cuciture addizionate a soggettività.
Vive.
Neanche dovessero parlare.