Avevamo un muretto, non nel senso che fosse nostro, ma l’avevamo colonizzato. Facevamo una colletta tra noi per comprare un pacchetto di sigarette, ridevamo di gusto, consumavamo tragedie sentimentali, partecipavamo a liti che ci sembravano vere e proprie battaglie con “altri”. E poi partivamo, in motorino “sempre in due”, non mi volevano come passeggero perché avevo (e ho tuttora) paura di tutto quello che non sia stabile almeno quanto un carrarmato e diventavo molesta, salvo poi dimenticare il timore all’improvviso, prendere la mano alla passeggera di un altro degli scassoni a due ruote con cui viaggiavamo e via, cantando nel traffico in questa piccola processione che santificava la giovinezza. Come ho avuto modo di dire altrove, ho un ricordo abbastanza ansiogeno dell’adolescenza, ma devo ammettere che c’è della poesia, della delicatezza, della tenerezza che avevo rimosso, dimenticato tra le pieghe di un presente che non assomiglia nemmeno vagamente ai sogni della me con l’apparecchio e che non aveva ancora scoperto l’importanza di tenere in ordine le sopracciglia. Leggendo “C’è mancato poco che non succedesse mai” quel sapore di marlboro del contrabbandiere, dei filoni (a Napoli si dice così, per gli altri marinare la scuola) al sole della Villa Floridiana, e delle emozioni intense, totalizzanti, quasi terribili, è tornato a trovarmi.
Avete mai pensato di volere una seconda occasione? Chiara sì. Chiara è la ragazza più bella della scuola ma una specie di buco, di strappo, nella sua anima di ragazzina fa sì che non riesca a resistere a tutto quello che pare chiudere quel buco. Ma Chiara ama, e come un uragano rompe, separa, trascina via le ipocrisie e lascia tutti davanti alla verità nuda, ma troppo cruda. Anche se Monica, che racconta quello che accade in classe nel suo diario, non la capisce, non riesce a comprendere quel dolore consumato tra le lenzuola d’una gita di classe. Monica è diversa, Monica forse vorrebbe essere Chiara, la ragazza più corteggiata e desiderata di tutte. E ci sono loro, gli amici, i compagni di classe, i compagni di squadra: Il Capitano, Muro, Bomber, Yashin e Flash. Imbattuti, invincibili, inattaccabili dall’esterno, guidati da un uomo, il professore di elettronica Furio, che li conduce come fossero i suoi figli sul campo e fuori in attesa di quella partita, la più importante di tutte, la finale prima della definitiva uscita dalla scuola e dal mondo dei ragazzi. E la vittoria appare scontata, e invece… Furio non se ne capacita, non riconosce i suoi ragazzi, è l’unico a non sapere, li ha forse persi per sempre.
E invece rieccoli adulti, quasi quarantenni, sparsi per il mondo Marco, Pietro, Claudio, Fabio, Paolo. Senza più soprannomi, con altre maschere più grandi a separarli dagli anni ’90, da quello che fu, dal campo di calcio ma anche dalla realtà che non può più toccarli. Fino a quella notifica, che li spiazza, li insegue nella testa, li ghermisce come il canto della stessa sirena di sempre.
Alessandro Aquilino ha preso in prestito una frase dal film “la Venticinquesima ora” per dare titolo al suo primo romanzo, raccontando della venticinquesima ora della vita, fino ad allora, di un gruppo di ragazzi, di un uomo che quando ha perso tutto e aspetta solo di morire riceve invece una nuova occasione e di Chiara. Bella da fare male, Chiara, volubile e fragile, in cerca di qualcosa che non sa cos’è. Ma capace di amare e agire, per avere questa seconda occasione, per se stessa e per tutti gli altri.
La storia scorre su due diversi piani temporali, e le voci femminili vengono interrotte solo dalla colonna sonora suggerita dall’autore stesso -canzoni che io non avrei mai scelto, che non sono le mie, io ne avrei altre- proprio per questo giuste, perfette, coerenti tra loro catapultano ora in un tempo, ora in una sensazione. La scrittura è essenziale, lineare, eppure non scontata, con un gusto per i giochi di parole che la rende viva e frizzante. Tante le citazioni che testimoniano un’epoca, una formazione, un modo di vedere dell’autore che svela al contempo quindi, per forza, anche qualcosa di lui.