Ogni volta che visitiamo un sito o facciamo un acquisto online i nostri dati personali sono raccolti da aziende che poi li rivendono per scopi commerciali. Un business senza regole e poco trasparente. Che vale miliardi di dollari.L'autore afferma di aver inviato nome ed email al sito reputation.com e di aver ricevuto in risposta il proprio numero di previdenza sociale, recuperato da qualche parte online. E non solo questo. Una vera e propria biografia è possibile recuperare in rete su ognuno di noi, non importa se molto spesso inesatta, che le aziende recuperano dalle nostre visite ai siti, dai nostri acquisti online, dalle nostre pagine sui vari social network, dalle foto che pubblichiamo. Insomma tutto contribuisce a formare un nostro identikit, soprattutto in chiave consumistica. Infatti sono altre aziende che richiedono questi dati, e cioè le nostre abitudini, ciò che ci piace, le nostre preferenze, i gusti, gli orientamenti, tutto fa informazione per chi deve venderti qualcosa.Ma quello che ne viene fuori è, come detto, molto spesso inesatto.Stein fornisce la propria testimonianza personale, delle varie descrizioni ottenute da diverse agenzie che si occupano di collezionare dati personali, aziende come
- Preferenze annunci di Google
- Yahoo
- Alliance Data
- eXelate
- BlueKai
- RapLeaf
- Intellidyn
I dati personali sono dunque una risorsa preziosa, con i quali ripaghiamo i servizi che riceviamo gratuitamente. John Kerry, senatore del Partito democratico ed ex candidato alla Casa Bianca, ha fatto una proposta di legge, in quello che anche oltre oceano è un settore ancora senza regolamentazione: permettere ad ogni utente, di cui una di queste aziende possiede i dati, di intervenire a correggerli; consentirgli di rifiutare il tracciamento e obbligare le aziende a proteggere i dati dagli attacchi di malintenzionati.
Pubblicità mirata. A questo scopo la Federal Trade Commission, un'agenzia in difesa dei consumatori, ha preparato un rapporto che invita i produttori di browser a dotare i loro software di dispositivi che consentano agli utenti di decidere se le aziende possono raccogliere dati su di loro oppure no. In pratica, il sito nel quale avviene una transazione o un acquisto può continuare a trattare i dati dell'utente, ma non può trasmetterli a terzi senza consenso dell'utente.La battaglia per la privacy data da lungo tempo. Ad esempio, alcuni dati, come racconta Stein, in America sono pubblici da sempre, ma prima dell'avvento di internet per poterli consultare ci si doveva armare di pazienza, recarsi sul posto dove erano conservati, compilare moduli e infine consultarli. Ora, con internet, sono sufficienti pochi istanti e i dati sono subito disponibili.Una cosa che forse avrete osservato tutti quando, per esempio, si spedisce una mail non da un client di posta sul proprio computer ma direttamente dall' account online è che, dopo aver spedito la mail, compare una pubblicità che riguarda, il più delle volte, quello che avevamo scritto nell' OGGETTO della mail. Sono le cosiddette pubblicità mirate. Stein le spiega così: esiste un'asta delle inserzioni pubblicitarie a seconda delle esigenze degli utenti. Il giornalista fa l'esempio di una mail indirizzata ad un suo amico a Houston in cui gli diceva che sarebbe andato a trovarlo. Questa informazione, cioè che un individuo sta per partire per Houston (senza il nome e cognome, quindi) è messa all'asta tra tutti gli inserzionisti cui interessa promuovere il loro prodotto collegato a Houston. In questo caso era una pubblicità di hotel a Houston. Per questo motivo c'è chi sostiene (Ryan Calo direttore del Consumer privacy project) che il data mining non può danneggiare nessuno perchè non fornisce profili completi ma solo informazioni parziali di quasi sconosciuti.Anche l'amministratore delegato di una di queste aziende di raccolta dati, chiarisce che loro non sono interessati a sapere chi si cela dietro un profilo utente, ma sono interessati solo ai comportamenti al fine di vendere pubblicità mirate.
Non troppo invasiva. L'insistenza eccessiva è sempre un rischio per chi vuole vendere qualcosa. Ne fa le spese una strategia nuova come il retargeting: quando consultiamo, anche senza acquistare, un certo prodotto, la sua pubblicità ci segue anche quando andiamo su altri siti. Il riscontro però, come detto, è stato negativo. La gente si sente braccata in più, non gradisce che gli venga ricordato cosa ha consultato, specie se si tratta di cose intime e se il computer è usato da più persone. La strada, per i pubblicitari, è quella del suggerimento non troppo invasivo, della pubblicità suadente e discreta, come fa Amazon che se compri un certo titolo ti avvisa "chi ha comprato quel titolo ha preso anche..." informandoti sulle scelte di altri acquirenti. La sensibilità dei pubblicitari alla personalità dell'internauta è tale che, a quanto spiegano, per tranquillizzare chi non gradisce le pubblicità mirate (il 15% circa) danno la possibilità di rimuoverle. Questo stratagemma dà la sensazione all'utente di avere il controllo della situazione.D'altronde, la situazione della privacy sulla rete non è chiara nemmeno a noi. Da una parte pubblichiamo informazioni e fotografie anche molto personali su social tipo Facebook mentre dall'altra esigiamo che le nostre abitudini o i nostri comportamenti su internet non vengano tracciati. L'esigenza del controllo è sempre presente. Ma questo comportamento ambiguo è usato dalle agenzie di data mining per giustificare la loro raccolta di dati. tra l'altro, una curiosità sulla sede di Facebook a Palo Alto: per visitarla occorre firmare un accordo di riservatezza che obbliga a non parlare di quello di cui si verrà a conoscenza durante la visita.Anche Google possiede una banca dati su di noi piuttosto ampia. Sembra che la loro strategia di gestione dei dati in difesa degli utenti sia di tenerli separati: dati personali da una parte e dati del computer (che diventano anonimi dopo 9 mesi) da un'altra. Ma c'è chi dubita di questo loro intento, in considerazione di quella che è la loro mission: organizzare le informazioni a livello globale e renderle universalmente accessibili e utilizzabili.Chi ci controlla. C'è un programma che permette di controllare quali aziende stanno tenendo traccia della nostra navigazione. Si chiama Ghostery. Stein nota che i siti che fanno pagare i loro servizi fanno un uso più limitato di tracciatori di data mining. Un'alternativa è quella di pagare per cancellare i propri dati personali sulla rete o, pagando un supplemento, cancellare tutti i dati negativi lasciando solo quelli positivi, pratica alla quale hanno fatto ricorso alcuni personaggi pubblici. Il problema però non è semplicemente confinato alla rete. Anche se sarebbe già sufficiente per allertare il nostro spirito critico, c'è chi pensa che l'utilizzo dei nostri dati personali scaturito dalle nostre navigazioni in rete al di fuori della rete, per esempio in campo assicurativo o nelle agenzie di collocamento oppure nell'accesso all'istruzione, possa costituire una seria invasione della nostra privacy e condizionare pesantemente tutta la nostra vita. Esempi, per ora più spesso americani, sono quelli di spokeo, che fornisce informazioni come professione, indirizzo, età e, grazie a Google street view, anche un'istantanea dell' abitazione. Molti utenti di Facebook hanno invitato i loro amici, che evidentemente facevano uso del servizio, a rimuovere il loro nome dalla lista. La difesa di questi giovani imprenditori è: è questione di abitudine. Se avessimo detto agli albori della rete voglio condividere le mie fotografie in rete ci avrebbero presi per pazzi. La rete è condivisione, affermano, senza limiti.
Privacy. In realtà, l'assenza di limiti pone inquietanti interrogativi. Se per un attimo ci dimentichiamo della rete e guardiamo alla nostra vita reale, notiamo che un'ingerenza troppo spinta nella nostra vita potrebbe limitare di molto le nostre libertà e opportunità. Pensiamo soltanto a cosa succederebbe se assicurazioni o datori di lavoro sapessero che abbiamo una certa predisposizione genetica a una malattia, oppure siamo portatori sani di qualche patologia, oppure abbiamo gusti e preferenze in un qualunque settore ma che vogliamo tenere nascosti. Esistono decine di casi in cui informazioni personali su di noi potrebbero convincere qualcuno, senza reale motivo, a cambiare opinione, e a non concederci cose cui abbiamo diritto. Se i dati che ci riguardano diventano accessibili a tutti e vengono utilizzati anche al di fuori della rete, questo potrebbe creare dei pregiudizi che limitano o impediscono il nostro accesso ai servizi. La rete non è affatto riservata. Non dobbiamo immaginare che una password garantisca la riservatezza, perchè non è così. E' per questo motivo che occorre una vigilanza continua. Le aziende perseguono interessi privati e, se nessuno le obbliga, non spenderanno risorse o rinunceranno a opportunità solo per tutelare il nostro interesse alla riservatezza. Considerata l'estrema sensibilità alla privacy di commentatori e rappresentanti del governo del nostro paese, ci si aspetterebbe, prima o poi, una seria normativa sulla privacy su internet. Un elemento che potrebbe farci conservare la speranza che la privacy è comunque un concetto rispettato anche dalle aziende è il loro interesse a far si che l'utente non si spaventi dall'intrusione nella propria vita. Questa intrusione, dovuta all'incertezza del navigatore sulla tutela della privacy, limiterebbe l'acquisto online e si tradurrebbe in un effetto boomerang per le aziende che acquistano inserzioni. Però è sempre bene tenere gli occhi aperti.Tanto per avere un'idea del giro d'affari, nel 2009, il budget delle 12 agenzie di pubblicità americane più importanti su internet è stato di 3,3 miliardi di dollari, di cui la pubblicità mirata rappresenta 0,6 miliardi.