C'era una volta...

Da Suster
... una principessa, naturalmente.
Anzi! Due.
Due principesse, piovute sulla terra da mondi lontani.
Una si chiamava Artemisia e l'altra Ipazia.
Una aveva fragranza di gelsomini, e fieno tagliato e grano maturo e terra riarsa, e sale sulla pelle, e frinire di grilli nelle orecchie la sera, e chiasso di cicale di giorno.
L'altra aveva la pelle profumata di violetta, e terriccio umido e foglie cadute e occhi grandi color castagna e prime piogge.
Arrivarono un giorno, anzi, due giorni, vicini ma distinti e dovettero imparare ad adattarsi al diverso terreno, a mettere radici e attecchire sul fertile ma a volte impervio suolo terrestre, a gestire nuove facoltà sensoriali, a muoversi e agire nello spazio e nel tempo, a conoscere le cose nuove e relazionarsi con gli esseri che popolavano quella loro nuova Patria.
Artemisia arrivò per prima, e l'accolse il sole caldo e la luce; ancor prima di guardarsi intorno si sentì molto arrabbiata, di tutto, e iniziò a urlare infuriata.
Artemisia aveva il fuoco nelle vene, ma custodiva dentro un'animo da principessa, che piano piano le rivelò anche la bellezza di quel mondo in cui era stata catapultata, così senza poterlo decidere, senza sapere come né perché, o per volere di chi. Allora pian piano la rabbia e lo scontento iniziarono a sopirsi, e lei guardava quel mondo con occhi sognanti.
Più di tutto amava i fiori, la loro delicatezza e i loro profumi, i loro colori così vari, le loro forme così mollemente dissimili e sapientemente simmetriche.
Ipazia aveva un gran sonno, quando arrivò, si sentiva stanca e spossata per il viaggio, a dirla tutta non aveva una grandissima voglia di guardarsi intorno.
Ma nel sangue covava i germi dell'amore per la sapienza e dell'arte teatrale. Presto schiuse anch'ella i suoi grandi occhi al nuovo mondo e iniziò a scrutarlo meditabonda.
Ipazia osservava, rifletteva e speculava, di tutto si faceva un'idea, ma sospendeva i giudizi pertanto che non fosse giunto il tempo.
Artemisia imparò presto il fascino della parola. Scoprì che gli esseri di questo mondo comunicavano modulando suoni e con quelli componevano pensieri, racconti, emozioni. Volle penetrare gli arcani di quei codici e imparò a dominarli, a conoscerli e a domarli. Ne esistevano di diversi e vari, e tutti avevano suoni differenti e differenti significati e differenti modi di esprimerli, ed era come un oceano infinito la parola che poteva dare infinite derivazioni e coniare infinite storie.
Artemisia amava le storie. Amava ascoltarle e amava inventarle.
Vedeva storie ovunque nel mondo intorno a lei. Storie di re e regine, ma anche di pezzi di legno, di ranocchie, di fiori, di gatti e di topi, di pulci e di orologi. Ogni cosa aveva una storia da raccontare, ogni cosa aveva una sua bellezza sottesa all'immagine visiva, e la parola la rivelava.
Ipazia speculando e speculando, finì per interessarsi assai alle leggi del moto, dello spazio, dell'equilibrio e della statica. Ipazia amava muoversi in quello spazio, sperimentando col proprio corpo. Trovava punti di equilibrio, sfidava la gravità, inventava figure acrobatiche. Si arrampicava, saltava, piroettava. Apprese insomma l'arte di dominare lo spazio.
E mentre Artemisia dalle lunghe ciglia raccontava e inventava, Ipazia dai grandi occhi carambolava e cogitava, il tempo passava.
Artemisia, visionaria e affabulatoria e Ipazia, dinamica e meditabonda.
Artemisia passionale e diffidente e Ipazia, tranquilla e indipendente, crescevano in grazia e bellezza, come tutte le principesse.
Le due principesse vivevano sulla Terra in luoghi distanti ma non lontanissimi da non potersi comunque incontrare saltuariamente, all'inizio ignorandosi reciprocamente, o interagendo solo per intralciarsi l'un l'altra, poi piano piano iniziando a riconoscersi, a intendersi, a cercarsi.
Quando si trovavano si scrutavano, si chiamavano e si abbracciavano.
A volte Artemisia indossava romantici vestiti di raso a balze, e si pavoneggiava rimirandosi nel riflesso di uno specchio d'acqua, improvvisava con grazia un passo o due di danza accompagnandoli con versi di canti ideati sul momento.
Ipazia era una farfalla leggera che saltellava tremula nelle sue vesti svolazzanti, ma aveva una criniera dorata come quella di un leone, e tutto voleva esplorare e sperimentare, ma poi rapidamente si stufava e passava ad altro, sempre sfarfallando di fiore in fiore, di saltello in saltello.
Quando Artemisia, tenendosi l'orlo del vestito di raso, tentava di tenerle dietro, a volte incespicava, altre finiva in terra con grande desolazione.
Quando Artemisia le mostrava qualcuno dei suoi animali immaginari e le illustrava le loro caleidoscopiche avventure immaginarie, Ipazia le diceva di non vedere proprio un bel niente: niente amico topino, niente fatine dei fiori, niente piccolo scoiattolo scureggione. Ma come non lo vedi, Ipazia? No, non c'è niente qui.
Eppure, pur parlando linguaggi diversi e dissimili, e malgrado sporadiche tirate di capelli e botte in testa, le due principesse continuavano a cercarsi sempre, e con grande cordoglio ogni volta Artemisia faceva le valige per far ritorno nel suo regno distaccato, salutando Ipazia fino alla prossima volta.
Intanto il tempo continuava a passar loro accanto, stagione dopo stagione.
E loro crescevano.
Ed era così bello vederle crescere insieme, così diverse, ma non distanti, lontane nella vita, ma non nel cuore.


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