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C'era una volta a Isola Rossa

Creato il 08 giugno 2014 da Loredana De Michelis @loridemi

C'era una volta a Isola Rossa
Guarda la fotografia, togli il molo ipermorderno, 30 anni fa c’erano solo rocce. Cancella il 70% delle case. Era così.
Dietro la torre abitava una bambina che aveva cresciuto un gabbiano: lui, oramai adulto, in certi giorni senza vento volava in cerchio sulla sua casa e la chiamava con un verso speciale. Lei usciva di corsa e stendeva le braccia al cielo mentre lui chiudeva le ali e le si tuffava in braccio in picchiata.
C’erano due bar, ed erano in concorrenza maligna. In uno, ricordo, gestito dalla famiglia prepotente del luogo, i frigoriferi erano tenuti a temperatura quasi ambiente, per risparmiare sulle bollette. I gelati si scioglievano nelle vaschette sporche. Il bar è ancora lì, ho controllato sul web, e dalle recensioni sembra ancora gestito dalla famiglia brutale e spilorcia di allora.
I ragazzi del posto la Domenica partivano per una gita di qualche centinaio di metri, superando la spiaggia grande e raggiungendo le calette di sabbia e rocce su cui camminavano decine di polipi. Con una sporta piena di pane e limoni, armati di coltello e pesi da sub, si immergevano qualche metro in apnea e staccavano con fendenti abili le invisibili ostriche larghe e piatte che aderivano alle rocce coperte di muschio chiaro. Poi tutti a fare merenda. Le cozze, eh, acqua troppo pulita, crescevano poco: fluttuavano in piccoli grappoli nerissimi e lucenti, senza neppure un’incrostazione, ma era grosse come noccioline, non valeva la pena.
Al molo, che era soltanto un palo di cemento, erano ancorate le barche dei pescatori e quelle dei corallari.
Una volta eravano andati a pesca, partiti all’alba, calate le reti, si era rimasti a galleggiare per ore sotto il sole, a guardare l’acqua e a reprimere i conati di vomito che il beccheggiamento può procurare al più duro dei marinai, mentre i pescatori saggiamente dormivano. Poi c’era stato il recupero delle reti, così taglienti e pesanti, piene di aragoste, grossi sgombri lucidi troncati a metà dai denti di pesci più grandi che erano nel frattempo passati di lì e si erano serviti la colazione che non poteva più scappare, razze piene di denti triangolari nelle bocche spalancate, esseri gelatinosi degli abissi.
Avevamo voluto fare la gita avventurosa dei lupi di mare, così ci ritrovammo a prendere le aragoste lanciate dai marinai: facevano un breve volo nell’aria da poppa a prua, agitando le chele. Noi le afferravamo, vive e bagnate, e avevamo l’ingrato compito di staccare loro le chele più grosse a morsi, affinchè non si ferissero una volta ammucchiate in un secchio.
Le chele staccate, i pezzi di pesce mangiati da altri pesci, e alcuni animali poco smerciabili, sarebbero stati la nostra paga, trasformata in una Zuppa Gallurese indimenticabile.I corallari di Isola Rossa erano famosi. Qualcuno era anche diventato ricco. Era il corallo che non c’era più, e per trovarne ancora bisognava secndere a 90 metri.
La sera, i corallari, un po’ come gladiatori sopravvissuti, arrancavano al bar dopo la giornata di lavoro. Gli occhi rossi e febbricitanti, i movimenti lenti, il braccio paralizzato dall’embolia della stagione precedente, bevevano una gazzosa, perché la birra proprio non ce la facevano, e andavano a dormire. Nonostante il rischio altissimo, si immergevano quotidianamente con le miscele di gas elio e arrivavano a guadagnare fino a cinquecentomilalire al giorno.. Le loro mute nuove e spesse 5 millimetri a Giugno si traformavano in carta velina prima ancora di Settembre, schiacciate dalla pressione di quasi dieci atmosfere.
Anche quella era un’avventura che non si poteva perdere e ci trasformammo in mozzi tuttofare, partendo la mattina con una piccola flotta di imbarcazioni più o meno rabberciate e molta tensione.
Il più ricco dei corallari si era potuto comprare una camera di decompressione da mettere in barca, ma gli altri, per 10 minuti di raccolta a 90 metri, si facevano la decompressione appesi ad una corda, per almeno tre ore, a profondità diverse.
Un solo ecoscandaglio in uso alla flotta ci guidò sul bordo di un crepaccio prodondo, forse senza fine: guardai verso il fondo con la maschera a pelo d’acqua ed ebbi una sorta di vertigine: sembrava di osservare una montagna dal basso, le cui cime si perdevano in un cielo nerissimo. Tutte le mie conoscenze su “l’immersione sicura” sembrarono subito ridicole: con la muta che cominciava a smagliarsi, pinne, bombola, maschera, una corda lunghissima legata in vita, una torcia e un martello, i corallari raccolsero il loro sasso da 5 chili, lo abbracciarono come un cucciolo e si tuffarono in fretta, mentre la corda con le tacche si srotolava velocissima vicino alle mie caviglie: 15, 30, 50 metri in pochi secondi, per arrivare in fretta in fondo, dove era maledettamente buio e freddo, senza sprecare la bombola. Alla faccia dei miei sforzi per compensare i timpani ogni mezzo metro: questi qua deglutivano e basta, dovevano avere dei timpani di gomma, quelli che ancora ce li avevano.
Dopo dieci minuti di silenzio, ancora fermi in barca a guardare l’acqua e a cuocere sotto il sole, i primi palloni rossi emersero come razi uno dietro l’altro portando in superficie il loro bottino di corallo raccolto a martellate. Le corde cominciarono a tendersi, mentre i corallari risalivano dei pochi metri concessi, per fermarsi lì appesi e aspettare che il loro sangue si adeguasse alla nuova prodondità.
Aiutammo il mozzo a recuperare i palloni e a calare una semplice lavagnetta con un gesso, lungo la corda che aveva strattonato, come per suonare una campana. Al secondo strattone ritirammo la lavagnetta, c’era scritto: CAMBIO. Una bombola piena venne calata in mare.
A 70 metri di profondità, l’acqua ti schiaccia: ti muovi come se ci fosse un uomo in pedi sulle tue spalle. Uno succhiata dal boccaglio deve essere fatta con forza disperata e basta per pochi secondi, poi devi respirare di nuovo, affannato. Il rantolo sordo del tuo respiro e i movimenti impacciati ti dicono che in quel mondo sei un alieno inadeguato e percepisci l’innaturalità della situazione. La maschera si incolla al viso come risucchiata e gli occhi ti escono dalle orbite. Quando il risucchio diventa intollerabile, e l’acqua comincia ad entrare, devi dare un colpo alla maschera e soffiare forte con le narici per spingerla via. In piscina è facile ma a quella profondità se sbagli a gestire il respiro l’acqua ti entra nelle narici con la forza di un pugno, e tossire con il boccaglio diventa molto complicato. Stare senza respirare è impossibile: i polmoni si incavano e chiedono aria. Questo per dire che fare un cambio di bombola a 60 metri non è uno scherzo e guardando la corda che spariva nell’acqua aspettai con ansia che desse cenni di vita.
Tirammo su le bombole vuote e calammo a più riprese la lavagnetta: ora tornava su con un’altra scritta: AQUA. Un secchio di alluminio pieno di acqua bollente veniva calato lungo la corda che aveva strattonato e il corallaro di turno se la versava nella muta, perché stare al buio e al freddo, stanchi morti, sai com’è.
Ad un certo punto una corda si mise a fare un piccolo movimento sinuoso, ondulatorio. Il mozzo ci scostò brutalmente e si precipitò a prendere da sotto una tovaglia una pistola lanciarazzi: sparò in acqua, molto vicino alla corda. Eravamo terrorizzati. Venne subito ricalata la lavagnetta che tornò indietro con: ANDATO UN FURGONE!! Il mozzo ci sorrise, era giovane ma aveva la pelle incartapecorita e le rughe intorno agli occhi. – Uno squalo bianco– disse - Ce ne sono sempre di più: entrano nel mediterraneo seguendo le navi dal canale di Suez e sono giganteschi, mica c’erano dieci anni fa -
Io pensavo al corallaro, appeso ad una corda come l’esca a un amo, che guarda lo squalo grosso come un furgone avvicinarsi pigramente. - Di solito quando nuotano così in superficie non mangiano, per fortuna -
Così aveva detto il mozzo.
Nel frattempo i corallari erano risaliti di qualche metro. Quello ricco, con la camera di decompressione in barca, gonfiò un pallone per risalire a tutta velocità e correre in quella specie di bara bianca dove fu prontamente riportato a 5 atmosfere. Sembrava molto malato e si rannicchiò addormentandosi subito sotto una spessa coperta, all’asciutto. Noi continuammo ad assistere gli altri con le bombole e l’acqua calda.
Quando arrivaro a trenta metri di profondità, una lavagnetta disse: - LIBRO – e una maschera con le lenti e un giallo mondadori furono gettati in acqua legati ad un sasso. Misi la maschera e la faccia in acqua: ora potevo scorgere il mio amico corallaro miope che, la corda attorcigliata intorno alla caviglia, fluttuava semisdraiato e leggeva il suo giallo approfittando della visibilità. Quando finiva una pagina la strappava e questa si allontanava lentamente verso gli abissi.
L’ultima decompressione a tre metri fu la più estenuante: mentre quello nella camera di decompressione adesso poteva usare un walkman senza che fosse frantumato dalla pressione, quelli sotto la barca sembravano alghe moribonde in balia delle correnti. Quando li issammo in barca erano pallidissimi e non parlavano. Rientrammo nel primo pomeriggio e loro andarono a riposarsi, prima di passare per la gazzosa al bar, per quella mezz’ora di vita sulla terra a compiacersi della gravità.
Visti i nostri brevetti conquistati con un corso alla piscina comunale, e passato l’esame da mozzi, i corallari quell’estate ci fecero un regalo: ci fornirono l’attrezzatura e ci portarono a fare un’immersione in una buca profonda 50 metri. Ricordo la mia discesa lenta a soffiare nel naso tappato, con il mio amico corallaro miope che mi controllava della barca, la cui chiglia, 40 metri più su, era perfettamente visibile e sembrava appoggiata sul vetro. Cercai di fare un cenno come dire O.K. ma forse mi mossi in modo goffo: lui prese un sasso e in costume da bagno e senza pinne scese come un proiettile, in apnea. Arrivato alla mia profondità mollò il sasso e si mise a nuotarmi intorno, sistemando la mia attrezzatura, controllando le manopole sulla mia schiena e guardandomi bene negli occhi., mentre io gorgogliavo come un mantice inceppato Mi sembrò un tempo infinito. Lo guardai risalire tranquillo verso la superficie, io intabarrata come un astronauta, lui che sembrava un pesciolino con gli occhi grandi. Sarebbe morto di lì a un mese a soli tre metri di profondità, per via di un mozzo distratto: aveva chiesto il cambio bombola e il mozzo l’aveva calata senza guardare. La bombola probabilmente l’aveva colpito in testa, un colpo leggero, ma sufficiente per ridurlo da uno stato di semi incoscienza a completamente svenuto, e lui era annegato, così. Quando lo ricordo risalire senza fretta verso la superficie azzurra mi chiedo percè mai sia dovuta andare in questo modo e mi pare una cosa assurda e irrispettosa.
Nella fossa col fondo piatto la visibilità era perfetta: intorno a noi pareti nere e bucate da cui spuntavano decine di chele e baffi. Il corallaro che ci scortava non esitò ad infilare le mani nude in una delle buche e a tirarne fuori un astice, che sarebbe stato il condimento dei nostri prossimi spaghetti. Avrei voluto che lo lasciasse andare ma non potevo parlare e soprattutto sarebbe servito a poco, presumo. I pesci, curiosi e per nulla intimoriti, si avvicinavano e poggiavano la bocca sul vetro della mia maschera, come a dare dei piccoli baci. Alcuni si lasciavano toccare, scivolando via languidi per poi tornare a strusciarsi, come gatti.
Erano affascinati dalle bolle che salivano e si davano il turno a sbocconcellarle.
Trovammo anche un piccolo pezzo di corallo rosso, sfuggito inutilmente per qualche tempo e cresciuto di nascosto, sotto una roccia.
L’ho ributtato in mare ed è affondato in fretta tra gli scogli, quelli alla fine della spiaggia grande di Isola Rossa.
C'era una volta a Isola Rossa

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