“C’era una volta in America” ha avuto una storia molto sofferta, fatta di versioni (più o meno) mutilate rispetto alle originali intenzioni dell’autore. Un’altra particolarità di questo magnifico film di Leone è che la storia non segue un preciso ordine cronologico, ma un ordine di intimi collegamenti, lo stesso che regola ricordi, pensieri e associazioni della mente.
Sulle note delle splendide musiche di Ennio Morricone e sullo sfondo di una magnifica Brooklyn di inizio secolo, Sergio Leone ci immerge magistralmente in situazioni e personaggi in cui non potremo fare a meno di identificarci, ma senza che il tutto perda il realismo e l’universalità proprie al tempo stesso di questo bellissimo “racconto”.
Molti tendono a definire “C’era una volta in America” un film criptico, uno di quei film che non si vogliono far capire del tutto. Molti tendono a sminuire soprattutto la seconda parte, quella maggiormente ambientata nel presente e in cui ci sono vicende purtroppo di scottante attualità anche ai giorni nostri, sia in America che in Europa. Forse non è semplicemente chiaro ad alcuni che il capolavoro di Leone gioca legittimamente con registri, tempi, toni e tipologie di accadimenti molto differenti, proprio in qualità di “racconto cinematografico”, come dice il titolo stesso e come suggerisce anche il teatro delle ombre cinesi.
Raccontereste mai una storia di giovani newyorkesi negli anni Trenta allo stesso identico modo e con lo stesso identico “stile” di una storia di un vecchio che indaga sul proprio passato alla fine anni Sessanta?