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C'era una volta in Anatolia

Creato il 04 novembre 2014 da Jeanjacques
C'era una volta in Anatolia
«Le storie sono la cosa più importante del mondo, senza storie non saremmo esseri umani», diceva Philip Pullman. Ma a conti fatti, cosa serve per fare una bella storia? Me lo sono sempre chiesto, specie guardando molti film e leggendo molti libri. Cos'è che rende delle storie così meritevoli di essere viste o lette? Una volta pensavo a un intreccio della trama particolarmente complesso, a storie ingarbugliate dove non si capisce nulla fino alla fine e dove si deve pensare per forza che l'autore abbia qualche problema. Non che storie così siano brutte o di poco conto, sia chiaro, ma semplicemente ciò che le caratterizza non è un elemento indispensabile. Poi mi è successo di leggere Fiesta di Ernest Heamingway e di averlo letteralmente amato. Ma amato in una maniera particolare, dopo aver passato determinate situazioni e certi stati d'animo. Ammetto senza problemi che se lo avessi letto a sedici anni l'avrei trovato quasi scontato, perché certe cose devi viverle per capirle. E leggendolo ho capito una cosa: una storia è davvero bella quando lascia qualcosa, ma soprattutto, quando la storia si fa da parte e lascia parlare attraverso di te i personaggi. Tutte cose che succedono in questo bellissimo film, vera e propria sorpresa degli ultimi anni.

Fra le steppe dell'Anatolia, dei poliziotti e un medico scortano il sospettato di un omicidio, affinché dica loro dove ha sepolto il cadavere...

Ho cercato di allungare la trama ma, a conti fatti, tutto quello che succede è lì, in quelle due righe scarse. E dire che il film dura addirittura due ore e mezza, quindi credo che molti possano chiedersi come hanno fatto ad allungare il brodo in quella maniera e cosa possa spingere una persona mentalmente sana e priva di intenti autolesionistici a visionare questo film. Questo bellissimo film, aggiungo. Perché nonostante non ci siano scene d'azione o una storia particolarmente intricata (qui Gran Torino a confronto sembra Inception) i minuti scorrono, ovviamente non senza qualche intoppo che questa scelta narrativa preclude, ma comunque si arriva alla fine senza particolare fatica. In tutto questo tempo accompagniamo degli uomini, persone normalissime, non supereroi o individui artistici o particolarmente brillanti, gente schiacciata dalla propria storia personale e da quella del loro paese, che però non riesce a uscire dal diramarsi di un'esistenza che ha messo loro i bastoni fra le ruote ogni volta che ha potuto. Proseguendo nel loro viaggio, però, veniamo in contatto con altre persone, forme di vita di quel paesaggio così caratteristico e particolare ma che racchiude dentro di sé la più grande delle tristezze. Tutti sono tristi, ognuno è colpevole di qualcosa: chi di non aver amato abbastanza la propria moglie, chi di non aver saputo dare un futuro degno ai propri figli... cos'è che, alla fine, li differenzia dall'assassino che stanno scortando? Ogni uomo è colpevole di qualcosa, nel suo piccolo, ma ci sono colpe e colpe. E chi è che decide che queste colpe sono più o meno ingiuste e quindi punibili in qualche maniera? L'uomo. L'uomo è l'artefice del male ma anche l'esecutore del proprio stesso testamento, questo sembra volerci dire Nuri Bilge Ceylan (che ha sceneggiato il film insieme alla moglie Ebru e col collaboratore Erkan Kesal), affidando il tutto a quello che sembra un causale scorrere di una storia che non esiste per lasciare spazio a dei personaggi che non sono altro che dei falliti, gente che nel seguire quell'indagine non fa altro che indagare dentro sé stessa. L'assassino è solo un pretesto per vedere come la gente reagisce davanti alla tragedia - già avvenuta, in questo caso - ma anche di fronte a quelle che a conti fatti sono le proprie consapevolezze. E sono quelle le peggiori criminali, gli assassini che non riusciamo mai a staccarsi di dosso, perché ciò che fa più male non è tanto l'azione o il torto, quanto il sapere la verità. La verità che ripercorre nella vicenda della donna che sapeva il giorno della sua morte, la cui identità verrà rivelata infine da una dichiarazione rapida, sfuggevole e totalmente destabilizzante. Due ore e mezza di film che possono essere interamente condensate in quell'attimo, eppure senza quei tempi dilatati, senza quelle bellissime immagine che accompagnano un'azione inesistente, Possiamo perderci nello sguardo vuoto dell'assassino, ritratto senza crudeltà ma neppure particolarmente analizzato, ma che però offre gli occhi più intensi degli ultimi anni. Alla fine anche lui, nonostante la terribile azione che ha fatto, è una persona comune, un'individuo che è stato unicamente più debole di altri in un mondo che sembra aver fatto della debolezza il proprio mantra, nascondendosi però dietro a fallaci scuse anche se l'unica cosa da fare sarebbe quella di ammettere apertamente ciò che si è fatto. Ecco perché, alla fine, il personaggio col comportamento più fiero sarà la moglie della vittime, in quel particolare incontro che farà col figlioletto per vedere in faccia chi l'ha privata del proprio compagno. E per collegarci al primo capitolo, ecco cosa rende così grandi certe storie: i personaggi. Qui non ci sono twist e nemmeno cliffhanger, ma solo lo srotolarsi delle vite di coloro che compongono questa visione. E che inevitabilmente finiscono per potersi riconoscere in ogni tipo di spettatore, anche se non necessariamente ha un trascorso simile al loro. Ed  questo che deve fare una grande storia, ricordarti che alla fine, spettatore o creatore che tu sia, sei solo un essere umano. E forse è questa la cosa più miserevole di tutte.

Da vedere assolutamente, anche solo per rifarsi gli occhi con le semplice e bellissime immagini della regia particolarmente ispirata.Voto: 
C'era una volta in Anatolia
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