VOLEVO REGALARE AI MIEI FIGLI LA NEVE. MA QUEST’ANNO È PIÙ FACILE CREDERE A BABBO NATALE.
Sono abbastanza vecchia da ricordarmi la grande nevicata. Non abbastanza lucida da rammentare l’anno esatto. Ma le scuole chiuse sì. E anche quei muri alti come case, forse ero io ad essere piccola, ora fa così effetto poter dire “io c’ero”.
E scattavamo foto davanti e dietro casa: davanti il vialetto spariva sotto un sale insufficiente, le staccionate bianche si ammorbidivano e alzavano d’altro bianco. Si piegava l’abete che dà verso la strada, i rami s’inginocchiavano come spose all’altare. Dietro, verso i box, il furgoncino degli zii pareva un camper. Gli era cresciuta sulla testa la gobba chiara come quella che ospita il letto sopra il guidatore.
All’inizio era quasi uno scherzo. La neve in città è la promessa d’amore di un playboy. Mio fratello controllava il termometro: siamo a meno 1, a zero, a 1 grado sopra. E nevicava ancora. E piano piano cominciammo a crederci. La gente che scomoda l’allerta per due fiocchi a gennaio e 30 gradi a luglio, non sapeva che dire. Tutti a guardare quel mistero bianco: chi a maledire, chi a esultare. Il Remo spalava e basta. Era il nostro portiere, gli occhiali rettangolari in celluloide nera, un ometto che già mi sembrava piccolo allora, e un tono sempre burbero, anche quando diceva qualcosa di buono.
Ecco, non dico una neve così. Mi piacerebbe. Spauracchio di molti, a me diverte ancora di più sapere che fa impazzire le città, le annienta come quei cancellini a girella sulle lavagne dei nostri anni d’un tempo. A me mi fa ridere lo spavento della gente, l’intirizzirsi di corpi spaventapasseri che hanno paura di cosa, di acqua stellata? Una neve così lo capisco che è rara. Ma almeno un po’, quanto basta a distrarre il cemento. A tirarci su gli occhi, farci stare su una gamba mentre la guadiamo, gru che saltellano stordite dalla novità.
Volevo darla ai figli. In montagna, milleduecento metri, sotto il Monte Bianco, a Capodanno. Credevo di poterla promettere. La Isa neanche sa cosa sia. Ti fanno sti video di Natale con il paesaggio imbiancato, le cartoline, le figure. Lei sa dire “Tale” per ogni cosa che riguardi il Natale: il Babbo, un albero di Natale, le renne. Ma “neve” non l’ha detto mai. E invece quest’anno, tra i due, è più realistico Babbo Natale. La vera fiaba è quella della neve.
Patrick un paio ne ha viste: dalla mansarda in cui stavamo i primi anni, a piombo sul mondo, un terzo piano che era come stare appesi al cielo, intorno c’erano solo costruzioni più basse, e alberi e parco. Lì venne una neve giusta, fitta, secca. Di quelle buone. Allora corri fuori, vestiamo il piccolo, i lampioni sono già accesi, sotto il cono di luce sfarina la magia.
Facemmo il tratto di strada salata che ci separava dal parco. Patrick in mezzo, una mano a ognuno di noi.
Arrivammo al parco, dove nessuno aveva spalato. Era questo il bello, metterlo giù e vederlo affondare. Patrick si affossa fino alle sue bassissime anche. Noi ridevamo, di riso e d’amore. Con quel sorriso d’angelo che viene ai genitori quando un figlio è goffo, senza malizia, senza cattiveria. Scevro di male e cattive intenzioni. Ridevamo fino alle lacrime, e le lacrime cadevano insieme alla neve.
Cinque secondi dopo Patrick piangeva spaventato. Lo estraiamo, lo rimettiamo giù. Poi si abitua, vedrai, si diverte. Gli consegniamo un briciolo di neve e lui continua a piangere.
Fu la più rapida passeggiata che io ricordi.
Dieci minuti più tardi eravamo di nuovo in strada, a correre con lui in braccio, a correre per metterlo in salvo, su quel marciapiede pulito che non gli avrebbe mangiato le gambe.
Gli abbiamo messo la solita carota in mezzo alla faccia, credo che un pezzo sia caduto, spezzata da una neve troppo dura o che avevo compattato esageratamente. Da allora, e per un po’, in primavera, trovai piante di carote ovunque sotto la finestra di camera nostra. Ma forse è il pupazzo, che ce le ha piantate.