Un amico di questo blog, Adriano Zullo, ci parla di uno scandalo che rischia di passare inosservato, sommerso dalle chiacchiere sugli equilibri di Governo. Inosservato dicevo, finché non lo proviamo sulla pelle:
Propongo un gioco ai lettori di questo post. Provate a leggere velocemente il suo titolo e a scrivere, di getto, la prima parola che vi viene in mente. Sono convinto che una buona parte scriverebbe parole come “Marchionne”, “Fiat”, “Pomigliano”. Magari qualcuno scriverà “Sacconi” o “Governo Berlusconi”. Sono, però, certo che nessuno, o quasi, scriverebbe “Collegato Lavoro”. Eppure questo provvedimento legislativo (la legge n. 183 del 2010, entrata in vigore il 24 novembre 2010) incide profondamente sulla vita di milioni di lavoratori, restringendone il campo di tutela. Lo fa, ad esempio, in tema di impugnazione di licenziamenti riducendo il termine entro il quale il lavoratore licenziato può ricorrere dinnanzi al giudice del lavoro (art. 32). Prima, un lavoratore che aveva subito un licenziamento doveva, entro 60 giorni, contestarlo al datore (anche mediante lettera raccomandata) e poi, nei successivi 5 anni, aveva la possibilità di ricorrere davanti al giudice. Oggi, il lavoratore deve, entro 60 giorni, impugnare il licenziamento e poi ha solo 270 giorni per scegliere se adire la via giudiziaria oppure no. Il termine ampio che il lavoratore aveva per il ricorso era più che giustificato anche a garanzia della libertà del prestatore di lavoro, parte debole del rapporto contrattuale. Già questo primo aspetto fa comprendere la “filosofia” del provvedimento messo in atto, tutta incentrata a ridurre le distanze tra gli strumenti di tutela a favore del lavoratore e i poteri del datore di lavoro. Ma un aspetto ancora più grave riguarda la situazione dei lavoratori a termine che vogliono impugnare il contratto per far valere la nullità del termine apposto. Un esempio può essere utile. Si pensi ad un lavoratore che è stato assunto con un contratto a termine che ha una durata di 6 mesi. Nel caso in cui tale termine non sia giustificato da specifiche esigenze (ad es., organizzative: il riordino dei software dei computer; o sostitutive: il lavoratore deve sostituire una lavoratrice in maternità) o, addirittura, non sia scritto nel contratto (se il datore ha comunicato oralmente la durata del contratto) il lavoratore può far valere la sua nullità. Tale diritto del lavoratore è un essenziale strumento di tutela a suo favore: si consideri che qualora il giudice riconosca la nullità del termine dispone la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato! Ebbene, se prima un lavoratore poteva contestare la nullità del termine del contratto in qualsiasi momento (l’azione di nullità è imprescrittibile e non ha, quindi, termini di decadenza) oggi potrà esercitare tale diritto solo entro 60 giorni dalla scadenza del contratto. Inoltre, a partire da tale impugnazione, il lavoratore ha l’onere di ricorrere davanti al giudice del lavoro entro 270 giorni, e non più entro 5 anni, come in precedenza. L’innovazione ha gravi conseguenze se si considera che il lavoratore, dopo la scadenza del termine, ha il preminente interesse a stipulare un nuovo contratto con quel datore di lavoro. Con la previsione di un termine così ristretto (solo 60 giorni), il lavoratore si troverà in una situazione di possibile ricatto: o stipula il nuovo contratto di lavoro o impugna quello col termine nullo. Tali previsioni non sono un elemento accidentale di una confusa produzione legislativa ma rappresentano l’essenza di una precisa visione conservatrice della società. Una visione ben espressa dalle politiche del Ministro Sacconi, tutte qualificate da un obiettivo preciso: mettere sullo stesso piano datore e lavoratore livellando le rispettive posizioni di forza contrattuale. È un obiettivo che si scontra con un dato incontrovertibile, sul piano logico prima che su quello giuridico o politico: il prestatore di lavoro è, per sua stessa natura, la parte contrattuale più debole e, come tale, non potrà mai essere sullo stesso piano del datore. È lo stesso Presidente della Repubblica che lo ha ricordato nel suo messaggio del 31 marzo 2010 con cui ha reinviato alle Camere questo provvedimento legislativo nella parte relativa all’arbitrato nelle controversie individuali di lavoro (art. 31). Con questo intervento si è giunti all’eliminazione di una delle parti peggiori del provvedimento, in tema di clausola compromissoria. Si prevedeva, infatti, che la decisione di devolvere ad arbitri la definizione di eventuali controversie poteva essere assunta non solo durante il rapporto di lavoro ma anche nel momento della stipulazione del contratto, attraverso l’inserimento di un’apposita clausola. Una previsione assolutamente incostituzionale visto che la fase della costituzione del rapporto di lavoro è il momento nel quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro. Il lavoratore si vedrebbe, infatti, costretto ad accettare che le future controversie siano decise da un arbitro (scelto dal datore) anziché da un giudice terzo ed imparziale. In seguito all’intervento del Presidente della Repubblica si è eliminata tale previsione ma si è riconosciuto alle parti sociali il potere di stipulare accordi sul punto entro il 24 novembre 2011. Qualora non vi siano accordi interconfederali in tal senso il Ministro ha il potere di convocare le parti sociali e, eventualmente, esercitare un potere sostitutivo per attuare le disposizioni in tema di clausola compromissoria. Occorre, quindi, continuare ad essere vigili affinché non siano eluse le indicazioni del Presidente della Repubblica e sia assicurata una adeguata tutela del contraente debole. Una vigilanza che è necessario attivare non solo nei confronti del Collegato Lavoro, e dei suoi risvolti critici, ma anche, e soprattutto, nei confronti della “filosofia” che esso esprime. Ciò è tanto più urgente se si considera che è in atto una continua regressione dei livelli di tutela del lavoratore.In nome della produttività o della crescita occupazionale si continuano a dare duri colpi alla dignità del lavoro, come se fosse possibile accantonare quest’ultima secondo l’arbitrio del governante o dell’imprenditore di turno. I soloni della crescita a tutti i costi dovrebbero tenere presente che ci sono alcuni costi che una comunità non può sopportare, pena lo svilimento dei propri valori costitutivi. La dignità del lavoro non può, quindi, essere sacrificata. Essa contribuisce al progresso materiale e spirituale della società e, in quanto tale, è il fondamento della nostra Repubblica. Ma se la Repubblica è fondata sul lavoro occorre attivarsi affinchè queste fondamenta non vengano erose.
P:S: il Collegato Lavoro è un provvedimento molto vasto che investe svariati temi. Nel post mi soffermo solo su due aspetti che reputo significativi di una “filosofia” che investe l’intero testo legislativo. Ve ne sono degli altri molto importanti (come la disposizione che limita il potere del giudice di risarcire il lavoratore a tempo determinato in caso di conversione del contratto in contratto a tempo indeterminato). Il post non è sicuramente esaustivo ma vuole essere uno spunto di riflessione e uno stimolo affinché si possa attivare, su questi temi, un’operosa vigilanza. Questo il link del testo del provvedimento. Consiglio la lettura degli artt. 31 e 32.