Ca’ Pinea, le fasce, i ricordi

Creato il 26 novembre 2014 da Viaggimarilore

Una passeggiata, ricordi d’infanzia, un torrente, le fasce e un antico borgo in rovina. Questi sono gli ingredienti di questo post. Un post che nasce dal cuore, si alimenta di ricordi, prende forma passo dopo passo e oggi, qui, trova compimento.

La vegetazione rigogliosa di una fascia dell’entroterra Dianese: agrumi, fichi d’india e, naturalmente, gli olivi

Quand’ero piccola, la domenica era dedicata alle passeggiate nell’immediato entroterra della Riviera Ligure di Ponente. Sono nata in un paese di mare, San Bartolomeo al Mare, che come tutti i piccoli paesi liguri marinari è stretto in una sottile striscia di terra compresa tra il bagnasciuga e le colline. Proprio queste colline così vicine erano la meta delle nostre passeggiate domenicali: io e mia sorella raccoglievamo i fiori di campo, anemoni e margheritine, di tanto in tanto un soffione, e intanto ci guardavamo intorno. Per me era sempre una scoperta, un’esplorazione: già all’epoca, probabilmente, una piccola viaggiatrice smaniava di spingersi sempre più in là.

Di tutte le passeggiate “in pineta” che facevamo, quella a Santa Lucia era quella che preferivo. C’era tutto: i fiori, le fasce, cioè i terrazzamenti coltivati a olivi nei quali potevamo scorrazzare liberamente a caccia di fiori perché non c’erano recinzioni; c’era la passeggiata lungo il torrente Santa Lucia, con le sue canne al vento e le libellule colorate, e c’era la possibilità, ogni volta, di poter scegliere una strada diversa da percorrere, per spingersi un po’ più in là. Una volta, solo una volta che io ricordi, ci siamo spinti più in su lungo il fiume: passati sotto il viadotto dell’autostrada, infatti, la via si biforcava e noi il più delle volte imboccavamo la stradina che saliva alla piccola chiesa di Santa Lucia. Una volta, invece, proseguimmo in basso, lungo il torrente Santa Lucia, che dalla chiesa prendeva il nome. Ricordavo la passeggiata, e ricordavo che in questa risalita che avevo idealizzato come se fosse la ricerca delle sorgenti del Nilo, non eravamo arrivati alla fine. Così domenica scorsa, quando con mia madre ci siamo fatte una passeggiatina tranquilla come ai vecchi tempi, improvvisamente mi è scattata la molla di scoprire dove arrivasse quella strada, se davvero ci avrebbe portato alle sorgenti del Rio Santa Lucia.

un ricovero per gli attrezzi su una fascia in prossimità del rio Santa Lucia

Le piogge degli ultimi giorni hanno ingrossato il torrente, che scorre limpido e impetuoso verso valle. Noi camminiamo alla sua sinistra, mentre l’argine destro è lambito dalle fasce che dal fronte della collina scendono a valle. Già, le fasce: i terrazzamenti liguri, che caratterizzano questo territorio da secoli, dovuti al tentativo dei contadini di strappare fazzoletti di terra coltivabile ad un territorio ingrato e scosceso, collinare fino al mare. Le fasce permettono di ricavare delle terrazze artificiali lungo i fianchi delle colline, realizzate in muretti a secco, con una tecnica sapiente ed empirica che oggi ormai si sta perdendo. Le fasce poi erano coltivate secondo ciò che più era utile all’economia regionale: dalle mie parti, ovvero nel golfo dianese, erano gli ulivi a farla da padrone. E gli ulivi ci sono ancora, anche se molto ridotti rispetto a quello che un tempo dovevano essere.

Con mia madre risaliamo lungo la via: ricordo qua e là qualcosa, qualche dettaglio: questa casa non c’era, sotto il viadotto c’era una discarica di lavatrici, alla chiesa di Santa Lucia ci si arriva da quella strada là… risaliamo il corso del fiume, e capisco perché già una volta, 20 anni fa o giù di lì, c’eravamo dovuti girare indietro: la strada finisce, il greto del fiume diventa proprietà privata. Peccato, l’avevo quasi carezzata questa speranza di giungere alle sorgenti del Rio Santa Lucia. E vabbé, pazienza. La strada piega a destra, risalendo una piccola collinetta che poi ridiscende in direzione del mare. Comunque il senso dell’orientamento non lo si perde mai, perché il mare è sempre là, laggiù, a dirci da che parte bisogna tornare.

Ca’ Pinea, nell’immediato entroterra di Diano

La strada arriva quasi in cima alla collinetta e ridiscende, costeggiando villette che un tempo non c’erano e che oggi godono di un bel panorama e di una posizione isolata, nel bene e nel male di ciò che questo comporta. Infine la strada scende in una zona che ricordo bene, perché quand’ero piccola stimolava e non poco la mia fantasia: poco sopra due fasce zeppe di margheritine si ergevano i resti di alcune case, ciò che restava di un antico borgo. Anche più in basso si conservava qualche rudere scalcinato, murature a vista in parte crollate e intonaco, laddove conservato, mangiato ormai dal tempo che divora ogni cosa e dall’edera che si attacca a tutto.

Sarà deformazione professionale, sarà che era da anni che volevo ritornare tra quei ruderi, ma non mi sono fatta sfuggire l’occasione. E ho scoperto Ca’ Pinea.

Uno scorcio dell’antico borgo di Ca’ Pinea

Ca’ Pinea vuol dire in dialetto Case Pineta. Il toponimo indica un piccolo borgo, questo piccolo borgo, che esiste fin dal 1300 qui, in quest’area che era sicuramente adibita a pineta. Gli abitanti però si erano adoperati, nei secoli passati, per sfruttare la coltivazione dell’olivo. Una bella vena d’acqua portava acqua ad un frantoio, ormai distrutto, e le quattro case sopravvissute erano abitate da coloro che qui producevano olio. L’economia di sussistenza di queste zone permise per secoli agli abitanti di Ca’ Pinea di campare. Poi, a metà dell’Ottocento, pare che un’invasione di formiche abbia costretto una buona fetta della popolazione ad andarsene e che un tremendo terremoto nel 1887 abbia convinto i pochi recidivi a lasciare definitivamente queste zone. Molti dei ruderi giacciono a terra dall’epoca, non c’è dubbio. Il borgo però continuò ad essere frequentato. Sicuramente in epoca fascista: una scritta sul muro della casa principale del borgo parla di una dedica a Santa Lucia nel 1930 mentre la titolazione della piazza (ci vuole coraggio a chiamarla così: due metri per due tra la casa e le fasce) è dedicata alla regina Margherita di Savoia.

Targa del 1930 a Ca’ Pinea

A Ca’ Pinea si riunivano, anche dopo il definitivo abbandono, molti giovani abitanti di Diano e delle borgate circostanti. I loro nomi sono stati segnati, in un murales che vale come targa, sul muro della casa principale. La cosa più bella, comunque, sono i “cartelli stradali”, scritti a mano e bordati da conchiglie di mare, cozze e patelle: tentativo di ingentilire una borgata che di gentile doveva avere ben poco.

L’ultima volta che sono stata qui sarò stata appena adolescente. Oggi la mia esplorazione è più consapevole, più adulta, più da archeologa, con un’attenzione maggiore ai dettagli e alle minuzie.

Ridiscendiamo da Ca’ Pinea visibilmente soddisfatte: finalmente mi sono tolta uno sfizio che mi portavo dietro da parecchio tempo. L’ultima tappa del nostro giro è la piccola chiesa di Santa Lucia, che da sempre è chiusa tutto l’anno se non in occasione di Santa Lucia, il 13 dicembre. La chiesa è stata restaurata da pochi anni, lo spiazzo antistante è sempre uguale, il cipresso è sempre lì. Vivacizzano il tutto le foglie gialle cadute dagli alberi che realizzano un bellissimo tappeto dorato sul sagrato della chiesina. Santa Lucia, la chiesa di riferimento per gli abitanti di Ca’ Pinea, che dà il nome al torrente che le scorre vicino, poco più a valle, e che ancora oggi è luogo di culto, anche se una sola volta l’anno, è la tappa finale del nostro giro, che da qui in avanti si va a congiungere alla via dell’andata, al di qua del viadotto dell’autostrada, verso la modernità, il traffico e il rumore del paese moderno, la “civiltà”.

La chiesina di Santa Lucia


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