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Ça va sans dire

Da Occhidadonna

Osservo il volo del posacenere che, per una folata di vento senza precedenti, sta piombando sul lunotto dell’auto della mia vicina: la forza di gravità che non concede l’azione, la ragnatela svelta del vetro che s’invecchia in un colpo, la grandine di schegge, un pavè di frantumi incastonati nell’asfalto. Potrebbe essere un punto sensoriale, l’esclamativo, la conclusione della sequenza di crolli a cui ha assistito la mia veranda: abbandoni, funerali, segreti sbocciati, l’assenza in eredità, la frutta ammuffita, la sedia a gambe in aria, scaglie che friggono. Punto.
Cerco tra i rifiuti le parole per aggiustare gli eventi: dare al disastro la forma della frase, incollarlo in paragrafi dispari, per ritrovare nella logica il rifugio antiatomico; lucidare una parola dopo l’altra, un pezzo dopo l’altro e classificare in ordine cronologico le macerie. Sono accadute tutte, le parole che lustro.

Guardare tutto con distacco, vattene, vattene: non fa niente, perdonare la tua incolpevole volontà che guarda dall’altra parte e rassicurarti, che ce la faccio, mentre perdo tutto, e poi anche te, ancora una persona, forse un amore, sì certamente l’amore; un numero di telefono, la tua mail impazzita, il tavolino rotondo dove ci bevevamo gli occhi. E tutto quanto il resto, perdo tutto senza inventario, ho la casa vuota. Sono la superstite, l’esemplare in estinzione, la specie vivente.

E nel bel mezzo del disastro, mentre crolla tutto il castello, le carte e pure un mazzo di sogni, e detriti di parole precise mi si conficcano nelle scarpe: mi metto a ridere. Ridere di me, di quanto “sto imparando”, direbbe qualcuno. E promettere che, avendo imparato così tanto, la prossima volta starò più attenta, sarò pronta, reagirò; esserne certa per tre secondi buoni e poi rassegnarmi alla mia imprudenza, al mio essere priva di misure, e ricominciare a ridere. So tutto, ho imparato tutta quanta la lezione e sono uguale, precisa, e lo rifarò e poi dirò non fa niente e poi da capo, fino all’errore giusto.
Ricordare il giorno in cui ho capito chi sono: quella che crede all’amore che non si decide, alle buone maniere, all’addio gentile, al mistero; quella che si protegge con la bellezza, quella che non fa niente. A cosa servirà tutta questa saggezza sbriciolata? Io non mi posso perdere. Io: non fa niente. Devo già combattere le mie guerre domestiche, reggere le pareti della cucina, le finestre, il cancello, figuriamoci se inizio una battaglia contro di me. E chi mi difenderebbe? Chi mi darebbe torto? Chi mi tradirebbe? Chi mi sarebbe fedele nella contesa in cui sarei la morta e la ferita? Chi mi pugnalerebbe alle spalle?
Devo proteggere i miei avanzi. Sotto rovine, sepolture, crolli, la sua lapide, piatti rotti, fiori morti, chiodi storti, posaceneri volanti e martelli sui piedi: c’è la mia testa intatta, che vede tutto, che memorizza ogni spavento, che scrive sulle bucce.
Neanche per un secondo ho pensato di cambiare, di rifarmi il capo, di lasciarmi deformare dalla necessità di primeggiare nello scontro verbale. Non fa niente. Resto muta, declino l’invito all’ultima parola.
Conosco l’errore e il rimedio, l’oltraggio e la pena, e non so che farmene di quest’asso nella manica: mi lascio ferire senza opporre resistenza, me ne sto muta e ferma mentre lo sbaglio si accomoda nelle mie stanze. Lo vedo entrare, so in quale costola si accomoderà, e alzo le braccia. Non fa niente. Errori come pioggia, come pietre in testa, come schiaffi in faccia a mano aperta e io: muta e ferma. Io faccio la cosa giusta, guardami. 
A che serve urlare l’errore? Come lo spieghi? Come lo racconti a chi ti ha ferita, che ti ha guardata, che non ti ha vista? Non lo capiva, non lo capirà. Non vede il sangue vivo: come potrebbe vedere le poche parole?
Ho sbadigliato la risposta giusta, le ho risparmiato l’abuso. Ho fatto tutti i novantanove passi: per l’ultimo si dà la precedenza.

Nel frattempo nella miniera sorta in un parcheggio, estraggo fondi di bottiglia e rido l’abbastanza.
Quante ne so, quante ne so.

Frantumi

Foto: Dave Coba – From “Broken” Series, 2008


Archiviato in:Racconti Tagged: amore, ca va sans dire, crolli, errori, frantumi, macerie, perdere, pezzi, rotta, rovine

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