Oggi si parla di cabrio. Settembre alza i tacchi e con lui le pillole di vacanza che ancora qualcuno riesce ad assumere nei weekend di evasione. Con ottobre il periodo delle colazioni frettolose e dei lunghi pellegrinaggi verso l’amato e odiato posto di lavoro si impossessa del nostro tempo. In men che non si dica, eccoci a (ri)vivere con stato d’animo refrattario tutto ciò che sta al di fuori delle nostre quattro mura. Domestiche o dell’ufficio, poco importa.
Una piccola minoranza, tuttavia, ha deciso di imbracciare le armi contro la monotonia e la routine.
Che siate o meno appassionati di auto è del tutto ininfluente: le cabrio sono in grado di dispensare benessere a chiunque.
Da James Dean a Marcello Mastroianni, passando addirittura per lo sfortunato J.F. Kennedy, le decappottabili sono ascese in breve tempo a status simbol e oggetto di culto, una filosofia di vita impossibile da rinnegare.
Il loro potere sta nella capacità di trasformare una noiosa corsa ad ostacoli tra poste, banche e supermercati in un momento speciale, grazie alle coccole del sole e del vento, che mescolano il proprio mezzo con l’ambiente circostante e scolorendone i confini.
Le radici delle “soft top” (le convertibili dotate di tetto in tessuto o vinile) si perdono in periodi in cui i motori a scoppio erano ancora fantascienza: le auto sono nate perlopiù con questa formula e l’hanno mantenuta a lungo prima di concedersi il lusso di un tetto in metallo. Tuttavia, nel ’96, sembrava giunta l’ora dei tetti morbidi, ormai in via di estinzione: la Mercedes consegnava nei concessionari l’SLK e da questi passava rapidamente nei sogni di molti. La Sportlich Leicht Kompakt(sportiva leggera compatta) , nata per fare da contraltare agile ed “economico” (in senso relativo, trattandosi di una Mercedes) alla più lussuosa SL, è stata la prima auto ad adottare un tetto in metallo ripiegabile nel bagagliaio facendo subito pensare che da quel giorno in avanti le cabrio sarebbero state soltanto così. Non tutti, però, avevano notato che la maestria dei tecnici di Stoccarda aveva celato problematiche tutt’altro che insignificanti e che minavano l’efficacia di questa soluzione.
Sono passati 17 anni da quello scoop e Mercedes non ha tradito la sua stupefacente invenzione, evolvendo il suo piccolo gioiello, ormai alla terza generazione. Ma in questo lasso di tempo, un po’ per moda, un po’ per presunzione, sono arrivati al pubblico modelli di discutibile gusto e di scarsa funzionalità al punto che fino alla fine del 2014 vedremo solo convertibili dotate del buon vecchio tetto in mohair. (ndr: il mohair è una particolare lana ricavata dalla capra d’Angora, con caratteristiche simili alla seta. E’ stata la fibra tessile scelta dalle case più esclusive come Bentley e Rolls Royce per le proprie cabrio, tuttavia nell’uso comune è diventato il nome per indicare tutti i tetti in materiale tessile, anche se non viene più usato nella produzione su larga scala a causa di costi proibitivi)
Ma cosa ha causato questa inversione di tendenza?
Realizzare una buona auto dotata di “retractable hard top” (o in breve RHT) è una grande sfida sia per la progettazione estetica che meccanica. Il design trova il suo tallone d’Achille nel volume della coda: questa deve essere sufficientemente alta e capiente da ospitare i pannelli del tetto che, comunque, finiranno inesorabilmente nel bagagliaio sottraendo prezioso spazio alle valige, minacciando la fruibilità della vettura. Per quanto riguarda la meccanica, invece, i nemici sono ben noti: peso e complessità. Un tetto rigido pesa necessariamente di più di una copertura in tessuto. Nel caso in analisi sarà necessario aggiungere a questo dei meccanismi di apertura adeguati alla mole, e anche lo schema di movimento è un problema non da poco: è in grado di procurare un buon numero di notti insonni agli ingegneri che devono definirli. Il tutto ha risvolti negativi su prestazioni e consumi, ma ancor di più su quel sofferto numero da scrivere sull’assegno durante l’acquisto. Le nuove auto tornano quindi a sfoggiare, fiere, i loro coprispalle in tessuto, ed è facile capirne il motivo adesso. La cosa più interessante è vedere come le soft top si siano avvantaggiate del loro tradizionalismo anche sul mercato dell’usato, specie in un momento cosi delicato per le vendite. Henry Ford, agli albori dell’automobilismo, disse “Quello che non c’è non si rompe” ed è proprio la ragione che ha complicato la vita delle vetture con tetto rigido ripiegabile sul lungo termine. Tra i primi componenti ad accusare il peso degli anni ci sono le guarnizioni: in questo caso ci sarà bisogno di almeno una giunzione tra i segmenti del tetto (assente nei tetti morbidi) che dovrà assicurare sia la rigidità della struttura che una corretta tenuta contro acqua e spifferi. Se una di queste decidesse di chiedere a gran voce il pensionamento ogni giornata piovosa si trasformerebbe in un incubo per chi guida, inoltre spifferi e scricchiolii annullerebbero la sensazione di protezione e solidità, principale pregio delle RHT. La verità dietro questa apparente involuzione delle cabrio sta in una semplicissima considerazione: le emozioni rinnegano il progresso, sono alla base dei nostri istinti e detestano essere manipolate. Solo le auto più autentiche e fortemente legate alle origini riescono ad avere fortuna in questo campo; ne sono esempio l’Alfa Romeo Duetto, prodotta per 30 anni, o la Mazda MX-5, che dall’89 ad oggi ha conquistato il titolo di spider più venduta al mondo, o la classicissima Porsche 911, che in tema di rispetto delle tradizioni è campionessa indiscussa. Le vere cabrio non possono rendersi rivoluzionarie, ma devono potersi trasformare in alleati di ogni battaglia, amici attenti a sollevarci dalle preoccupazioni o compagni di viaggio con cui esplorare il mondo. In breve devono semplicemente elargire il meglio dell’esperienza “en plein air”, l’esperienza che rende unico ogni giorno al galoppo del vento col proprio destriero.