Anna Lombroso per il Simplicissimus
Eh si adesso si che possiamo andare a testa alta, ammessi al tavolo dei Grandi. Adesso che per Natale ci siamo permessi i nostri giochi di guerra, cacciabombardieri e una macchina bellica che in nome dell’eufemistica dell’ipocrisia, chiamano missioni di pace.
L’autoritarismo neo liberista impone, non spreca più tempo per persuadere che le politiche coercitive travestite da missioni umanitarie, producano consolidamenti istituzionali e il ripristino automatico di condizioni di legittimità e democrazia.
Anzi in nome dell’appartenenza al contesto occidentale, peraltro piuttosto malridotto, e alla sua manutenzione si fa un vanto delle politiche di intervento, della loro modernità, delle loro potenzialità di “sviluppo tecnologico”, attribuendo valore positivo a interferenze e ingerenze perché l’autodeterminazione di popoli costituisce un attentato all’impero.
Le dinamiche della globalizzazione – cui si attribuiscono tutti i meriti e le colpe – rendono questo mondo, in attesa dell’apocalisse dei Maya, sempre più eterogeneo, ibrido, complesso, inadeguato a comporre le differenze economiche e sociali, garantendo la libertà, tutelando le identità, neutralizzando il conflitto. Realizzando dunque l’integrazione delle democrazie nazionali e costituzionali in una democrazia multiculturale e cosmopolita. E il pragmatismo schizzinoso taccia di arcaismo il progetto di un’equa omogeneizzazione del sistema internazionale in chiave “democratica”, quella federazione di popoli immaginata da Kant, addirittura impossibile se guardiamo alla sussiegosa e impotente Europa, così come alla tracotante egemonia statunitense, ambedue ormai ridicolizzate dalla crisi monetaria, economica e morale.
Figuriamoci se a questa logica aberrante si sarebbe sottratto il nostro Paese, velleitario di riconquistarsi in posto in loggione alla rappresentazione dei protagonisti. E un governo che si dimostra forte coi deboli e debole coi forti. Talmente “debole” all’interno e all’esterno da non sapere più nemmeno immaginarsi un’utopia di giustizia sconosciuta e da preferirle un incubo noto di iniquità.
D’altra parte bisogna ammettere che non sono loro gli iniziatori sciagurati di un costume avviato da quando l’Italia ha rimosso la ritrosia alla soluzione armata del secondo dopoguerra per partecipare con esemplare solerzia a tutte le principali missioni militari, dell’ultimo quindicennio abbondante: Iraq, Somalia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Afghanistan, ancora Iraq, Libano, Libia. Per guadagnare un certo consenso – anche da pubblici sorprendenti – al perseguimento di interessi miopi e altrettanto miopi e arruffate alleanze, per restare in sella del recalcitrante cavallo di una crescita “illimitata” e di una corsa all’accumulazione e al profitto spesso di una oligarchia governativa, la pace si è fatta solo col linguaggio, la semantica e l’ipocrisia di stato.
Sulle azioni di guerra è stato cosparsa un po’ di cipria in modo che andasse anche nei nostri occhi e sono diventate missioni umanitarie per esportare non solo la pace, non solo la poco commerciabile democrazia, ma l’opinabile e fragile benessere, quello che avremmo voluto rappresentasse la legittimazione etica del capitalismo, se non addirittura la dimostrazione scientifica della possibilità di “buscar” l’Oriente attraverso l’Occidente insomma di giungere (e distribuire) la virtù attraverso il vizio. E anche quel che resta della sinistra ha partecipato al gioco perverso di delegittimare i dissidenti, di tacciarli con sufficienza di velleitarismo irrazionale, di polveroso pacifismo da anime belle.
Invece precari e non garantiti, lavoratori sempre più espropriati di certezze e diritti, si sarebbero sentiti meno soli se ci fosse stato qualche reprobo, qualche irriducibile della solidarietà e della pace, un Karl Liebknecht o un Otto Rhule (che nel 1914, da soli nel gruppo parlamentare della Socialdemocrazia, votarono contro i crediti di guerra), che, nel consesso democratico del “pragmatismo”, avesse avuto il coraggio di rompere la disciplina della necessità per dare il voto a quella della civiltà e dell’umanità.