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“Cacciatori di frodo” di Alessandro Cinquegrani

Creato il 22 giugno 2013 da Sulromanzo
Autore: Domenico CalcaterraSab, 22/06/2013 - 11:30

Articolo pubblicato nella rubrica Esordi, Webzine Sul Romanzo n. 3/2013, Le tentazioni della cultura.

Alessandro Cinquegrani, Cacciatori di frodo, Webzine Sul Romanzo
Bastano pochissime pagine per immergersi nell’incedere volutamente circolare e salmodiante di Cacciatori di frodo (Miraggi, 2012), il potente esordio di Alessandro Cinquegrani. Passo che mira a far coincidere temperatura emotiva e durata della scrittura, contribuendo a creare un’atmosfera ultimativa, per una storia che si presenta come esemplare tragedia familiare contemporanea. L’espediente, non nuovo, anzi tipicamente novecentesco, è quello di adottare un punto di vista focalizzato, una partitura per voce sola, a mimare un iterativo lusso di coscienza  («il  rumore d’ingranaggi del cervello»), a ondate regolari, martellanti refrain; amniotica sostanza dalla quale,  a  fatica,  aggallano i laceranti frammenti della rievocazione della vicenda personale e familiare di Augusto Dalla Libera  (assomigliando, in verità, il romanzo, a un lungo flashback, di continuo sospeso), l’io narrante del dramma che Cinquegrani mette in scena.

Dopo che tutto si è consumato, abbandonato il solo  successo  della  sua  vita,  l’efficiente  inceneritore ai margini della città  («fiore all’occhiello del florido Nordest»),  il precipizio nel quale  è piombata  la vita di Augusto è  scandito dal quotidiano ripetersi della medesima situazione: ogni mattina, Elisa,  la moglie sofferente di crisi di panico e potenziale suicida, esce dalla casa cantoniera giù al fiume nella quale sono andati a vivere, percorre dodici chilometri di un binario morto fino a una curva troppo stretta e lì si sdraia, in attesa del treno «che le faccia rotolare la testa giù all’argine e nel fiume»; ogni mattina, anche lui s’incammina lungo il binario morto, con  la sua «nuvola di acerbe espiazioni al guinzaglio», per  salvarla, come nella Promenade di Marc Chagall, dove  l’uomo afferra per mano la compagna della vita, mentre  sta per librarsi in cielo, sospinta dal vento. Un Orfeo rassegnato che recupera la sua Euridice, appena a un passo dall’inferno (o, quell’inferno, già abitandolo, da tempo).

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