1978, Pina Bausch.
Per chi non la conoscesse, Pina Bausch (27 luglio 1940 – 30 giugno 2009) è considerata, universalmente e senza obiezione possibile, un genio della danza moderna, in particolare come innovatrice e massima esponente del Tanztheater (Teatrodanza) tedesco. Questo spettacolo (e film), accompagnato dalle arie di "The Fairy Queen" e "Dido and Aeneas", opere teatrali di Henry Purcell, lasciò il mondo a bocca aperta e stesso effetto ha prodotto in me a 34 anni di distanza. Se dovessi darne una definizione breve direi che è un Capolavoro d'espressività interiore.
Parlare di sinossi qua è impossibile. Sono solo riuscito a capire, cercando in giro, che Pina è partita da una base autobiografica, i suoi genitori erano proprietari appunto di un bar. Nessuno però sbilancia, o sarebbe meglio dire azzarda, interpretazioni di quanto viene mostrato. Pina, indosso solo slip e una vestaglia, entra e scorre il bar lungo una parete, porge le lunghe braccia. E' un ambiente buio, la luce naturale compare da una grande porta a vetri che separa da un'altra girevole. Compare una seconda ballerina, s-vestita come lei e poi un giovane che con questa inscenerà una serie di abbracci, ricomposti e in realtà "spezzati" da un altro. Momenti di pazzia, i giovani a infrangersi sulle sedie con altri che queste le allontanano come a proteggerli. Una sola donna è vestita e colorata. Ci sono anche altre figure, tra le quali un inquietante uomo con cappotto nero molto spallato, altre strane ripetizioni di una coppia che si scaraventa rumorosamente e alternativamente contro il muro e infine un "passaggio di consegne": la donna colorata passa i suoi colori a Pina. Non è una sintesi, solo quale immagine di ciò a cui si assiste.
Una visione notturna del bar per un'espressività ermetica. I movimenti dei corpi e il loro interagire con l'arredamento pare non pilotato da logiche. La sensazione è che i danzatori esprimano, liberandolo, il proprio inconscio compiendo così gesti la cui simbologia proietta sulla visione l'inconscio stesso di chi guarda. Ho "giocato" con Pina, con tutto quello che mi faceva venire in mente mentre la guardavo. All'inizio ho visto un'anima in cerca di amore, che si apriva, un po' timidamente. Penso a lei e penso al dramma del popolo tedesco uscito culturalmente distrutto dalla guerra. Il bar è un luogo dove avvengono di giorno incontri, di ricostruzione del tessuto sociale, ma quelle sedie sono troppe, non c'è spazio per liberare l'ego. Il bisogno di amore lo puoi reprimere, non cancellare, l'umanità non si cancella. Ecco che i giovani si ribellano a chi vorrebbe codificare loro il modo di amarsi e le lotte sono sempre incessanti, quelle interiori più di quelle esteriori tendono a soccombere e quindi poi una disperazione. La giovane si spoglia, un disperato gesto per chiedere aiuto, chi cerca di aiutare è impotente. Il pianto libera, recupera il bambino, il quale però come tutti i bambini è anche dirompente, violentemente reagisce ai divieti. La donna colorata, madre, assiste crescere la figlia e un popolo figlio. C'è anche un padre, appena lo noti, convenzionale, amorevole, sostanzialmente inutile. Il nazismo incombe come passato, di uomini repressi che han represso gli altri volendo uccidere sé stessi e ancora propongono la loro soluzione come la più semplice, così come per negare la propria omosessualità, latente e stupidamente temuta, ci si accanisce sugli omosessuali. In questo mare di sofferenza riemerge la grazia di movimenti circolari, lievi. Pina si accarezza, si abbraccia e vuole abbracciare tutti, allora Madre le passa lo scettro, che sia la pace e la tolleranza ciò che farà risorgere questo popolo, che possa trasformare la vergogna in virtù, che non rimuova ma comprenda per non ripetere, perché rimuovere vuol dire comprimere ulteriormente l'inconscio fino a quando una falla, in quella pressione, causerà una nuova eruzione.
Nulla, ma proprio nulla di quello che ho pensato, è da attribuire a Pina Baush. Gli scossoni che ho provato, accelerazioni cardiache, stupori, le lacrime finali... quelli sì invece, solo che non so come descriverli, posso solo dire che mi sono capitati ma il vero perché è nascosto là dove non arrivo col ragionamento.
Capolavoro sta fin stretto a un'opera del genere che giustifica una vita. Se l'avessi avuta davanti sarei corso ad abbracciarla, come ho letto ha fatto Federico Fellini quando ne ha avuto la possibilità e lo capisco. So che Wim Wender le ha dedicato un film documentario che mi dicono essere splendido e lo guarderò prestissimo.
Guardate questi 40' di emozione senza indugi! Ignorate ogni interpretazione compresa la mia. Se lo riguarderò - e accadrà sicuramente tra un po' di tempo - altre opinioni, letture, studi, soprattutto esperienze di vita, contribuiranno ad apprezzarlo ulteriormente.
Robydick
Magazine Cinema
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