Il sole era cocente nei pochi attimi in cui il vento si placava, ma Rosina era troppo eccitata dalla novità, per lamentarsi del caldo sulle spalle e sul capo. Un’occasione come quella non si poteva certo rifiutare, anche se ora la curiosità la rendeva inquieta, così si muoveva e cambiava posizione in continuazione, fletteva le gambe, si passava la mano sulla fronte, scostando i riccioli biondi sfuggiti alla crocchia o strofinando il nasetto impertinente, per non parlare delle mille domande che le sfuggivano anche se l’era stato detto di stare zitta e buona.
Non era la prima volta che stava lì a crogiolarsi, ma solitamente portava una cuffietta e restava poco tempo.
Esasperato dalle sue continue interruzioni il signor Palizzi le aveva lanciato uno sguardo di fuoco, lui che era sempre tanto serio e tranquillo e, preoccupata che cambiasse idea, Rosina si era irrigidita guardando la distesa blu del mare appena increspato, che si estendeva come un’immensa tovaglia davanti a lei.
Era stato appena due giorni prima, dopo aver finito di curare le verdure che, ritirandosi per la pennichella, Rosina si era incamminata a piedi nudi sul fresco pavimento a scacchi rossi e neri dell’atrio della grande casa dove prestava servizio. Come suo solito non aveva resistito e si era sdraiata sulla scacchiera di piastrelle, come se fosse ancora una piccola mocciosa, e fingendo di nuotare si era persa nell’affresco delle sirene che decorava il grande e alto soffitto della villa. Da che aveva cominciato a fare la sguattera nella ricca dimora, quel gioco era l’unico che la ragazzetta potesse permettersi e solitamente a quell’ora nessuno passava, poiché i padroni dormivano al piano di sopra e i domestici erano tutti in veranda a riposare. Inaspettatamente quella volta era entrato il pittore, ovvero il professor Palizzi del Reale istituto di Belle Arti di Napoli, che era ospite della signora ed evidentemente aveva voglia di fare una passeggiata pomeridiana.
Rosina era ancora persa nei suoi sogni ad occhi aperti quando lui aveva tossito e, nel rendersi conto della presenza dell’uomo, si era raggomitolata con spavento, inconsapevole di somigliare tanto a uno scoiattolo impaurito: «Scusate signò.», aveva squittito mettendosi in piedi, pronta a scappare.
Lui le aveva sbarrato la via di fuga, scrutandola attentamente: «Non sei tu, che oggi prima dell’ora di pranzo, oziava sullo scoglio oltre il prato?»
Ci era andata dopo aver steso le lenzuola, era stata un’avventatezza di pochi minuti e Rosina, temendo che quella libertà le causasse guai, si era giustificata in fretta: «‘O giuro nun o’ faccio cchiu!», ma lui si era messo a ridere, la prima risata che gli avesse sentito fare, e l’aveva rassicurata, che avrebbe mantenuto il segreto.
«Piuttosto, che facevi qui, stesa sul pavimento?», le aveva chiesto appoggiando a terra la valigia che conteneva i suoi strumenti di lavoro: erano vasetti, pitture e pennelli, Rosina li aveva visti spolverando la sua camera da letto.
Arrossendo, la giovinetta gli aveva confessato la sua passione verso le donne pesce dipinte sul soffitto.
Il professore aveva alzato gli occhi al cielo, levandosi il cappello, come accorgendosi per la prima volta degli stucchi e degli affreschi che decoravano la grande stanza e lo vide aprire la bocca, sorpreso di quei disegni, ma la penombra non rendeva loro giustizia così Rosina, con lo stesso orgoglio di una padrona di casa, aveva aperto gli scuri della finestra, illuminando anche con il suo sorriso il grande atrio.
L’uomo e la fanciulla erano rimasti in silenzio parecchi minuti, in contemplazione delle movenze guizzanti delle figure mitologiche e delle onde verdeazzurre che qualcuno aveva affrescato sulla grande volta, tra le volute arricciolate degli stucchi anneriti da qualche nuova ragnatela.
Sedendo sulla panca di pietra accanto alle piante verdi, il signor Palizzi le aveva chiesto da dove venisse.
«Da Surriento!», aveva esclamato Rosina e gli aveva detto di sé, della famiglia, e del fratello soldato nella grande città di Napoli.
Dopo aver ascoltato, lui aveva proposto: «Se ti racconto una storia curiosa, poi tornerai sulla roccia perché io t’immortali sulla tela, come le donne pesce che ammiri tanto?», e aveva indicato verso l’alto con l’indice macchiato di colore.
Rosina che era ancora ingenua, adorava le favole, così non si chiese nemmeno se la padrona le avrebbe permesso di oziare, e si era fatta avanti, tutta orecchie, in posa quasi infantile.
«Conosci il motivo per cui Sorrento ha questo nome?», aveva chiesto con voce calma il professore mentre lei scuoteva il capo: «Dice la saggezza popolare che proprio in questo golfo fossero di casa le mitiche Sirene, bellissime e misteriose donne che, con il loro canto meraviglioso incantavano i marinai… Tanto tempo fa, forse proprio sullo scoglio che ami tanto, veniva a sedersi Sirentum, una ragazza bionda come te, che ebbe l’onore di conoscere una sirena vera, la bella Partenope che le predisse un futuro da regina…», e per un’ora almeno il signor Filippo e Rosina rimasero a parlare nella frescura dell’atrio.
Così la fanciulla si era ritrovata su quello sperone di roccia, in posa, anche se non riusciva a stare calma e immobile, troppo inebriata dall’importanza del suo compito di modella e traboccante di genuina felicità.
Persa nelle fantasticherie non si era accorta che l’artista aveva lasciato il cavalletto per raggiungerla, alzando la voce severa per sovrastare il rumore del vento e del mare: «Suvvia Rosina, stai ferma! Come posso ritrarti, se ti agiti tanto? Cerca le sirene, per favore!»
E mentre il meticoloso pittore si rimetteva a lavoro, la bella fanciulla rimase assorta per ore, ripensando alle misteriose donne dal corpo coperto di squame che ingannavano i marinai, ricordando la bellissima Sirentum rapita dai Saraceni che dava nome a quel territorio spettacolare, cercando la sua presenza in ogni gioco di luce, immaginando scaglie d’oro in ogni riflesso sulle onde, e sullo scoglio di Sorrento. Rosina immortalata per sempre nella tela, persa nei suoi sogni innocenti, in quell’età sulla soglia della giovinezza, quando non si è più bimbe né donne ancora, ma sirene.
Filippo Polizzi, “La Fanciulla sulla roccia a Sorrento” – 1871
Io ho inventato questo racconto basandomi sul fatto che il pittore ha inserito, nascosta tra le rocce, questa epigrafe in nero:
“Egli mi pose a giacere su questa roccia, mi dice di guardarti da mattina a sera e dirti sempre: sii felice. Felice.“
Per la leggenda sorrentina, questo sito la riporta per intero.
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