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Cagliari, a mussius e arrogus

Creato il 12 maggio 2014 da Alessandro Zorco @alessandrozorco

Il mio sogno? Fare un volo sulla città in elicottero e pisciarci sopra. Città bigotta, de pisciatinteris e pisciarrenconis che al referendum del 2 giugno 1946 hanno votato per la monarchia! Strunzusu! Per quel re che ci ha lasciato per secoli morend’e famini e a peis scurzus. Secoli di colonialismo non hanno insegnato niente, ‘ta bregungia, pocarirari! Andati male, siamo”. Le parole del disilluso professore cagliaritano, amatissimo dai suoi studenti e quasi invisibile agli occhi di una Cagliari che sta cambiando e sta iniziando a perdere la sua identità, esprime bene l’essenza di “A mussius e arrogus – Cagliari negli anni Cinquanta” (Iskra – 2014). Sopralluoghi nella memoria cagliaritana, scritti, e ancor prima vissuti con passione e divertimento, da Adriano Vargiu, che mi onora della sua amicizia, autore di numerosi libri sulla Sardegna e su Cagliari in particolare.

Venerdì 23 maggio alle 17,30 presso la libreria Camboni, a Cagliari in via Redipuglia, insieme con l’Autore faremo un sopralluogo nella memoria. Per provare a raccontare, ovviamente a mussius e arrogus, per i non cagliaritani a spizzichi e morsi, la Cagliari popolana, beffarda, verace e di strada che rivive nel libro.

Cagliari, città de oreris e bagasseris 

Cagliari, marzo 1948.

Un ragazzino torna a Cagliari in littorina assieme alla sua famiglia, sfollata ad Olbia nel ’43. Trova una città distrutta dalla guerra. Macerie, povertà ovunque. Ma anche tanti cantieri. Perché Cagliari e i cagliaritani hanno voglia di ricominciare a vivere e divertirsi. Sui muri risparmiati dagli spezzonamenti alleati campeggiano da un lato le scritte degli sconfitti, siglate M o, per intero, Mussolini: Credere, Obbedire, Combattere. E, dall’altro, quelle dei liberatori che avevano vinto bombardando la città a tappeto: OFF LIMITS e DDT.

Cagliari Via Roma Anni 50

A mussius e arrogus” è lo spaccato di quella città ricostruita in pochi anni, quasi miracolosamente, grazie al lavoro e alla buona volontà dei cagliaritani. Ricostruita soprattutto grazie ai lavoratori: muratori e piccaparderis venuti dai paesi del Campidano, carpentieri, idraulici ed elettricisti, e is  bastascius, gli scaricatori di porto, che tanto hanno dato alla rinascita di Cagliari. E’ anche lo spaccato di una generazione che ha attraversato le macerie e la distruzione della guerra nella speranza di costruirsi un futuro. “Una generazione cresciuta fra le macerie della guerra, che sperava in un buon lavoro, che credeva nell’articolo 1 della Costituzione della Repubblica Italiana: L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Il periodo storico è quello della cosiddetta “Rinascita”, dei suoi piani milionari calati dall’alto che hanno fatto tanti danni alla Sardegna. Di una programmazione sballata che, con il miraggio delle grandi industrie, ha spopolato le zone rurali e i paesi dell’interno.

In quel periodo Cagliari si trasforma velocemente e con un’urbanizzazione discutibile. La città dei quartieri storici, dei sottani, is bascius, senza acqua corrente, con il gabinetto separato solo da un telo, dove ci si lavava nei grandi bidoni portati dagli americani, in poco tempo diventa la Cagliari dei grandi palazzoni di cemento, costruiti lontani dalle mura dei quartieri storici, per dare una casa ai senzatetto della guerra.

Con l’incremento demografico cambiano le abitudini, i cagliaritani iniziano a perdere la loro identità. Il libro è un affresco della ultima Cagliari dei soprannomi, ognuno ne aveva uno, della Cagliari dei bambini che giocano in strada: luna monda, cili-mele, scalineddu con le figurine, sa bardufula, la trottola, furrisca, il gioco delle biglie. Tutti i bambini avevano sa frunza, la fionda fatta con la camera d’aria della bicicletta. E andavano a pescare a lenza nello stagno di Santa Gilla innescando l’amo con su trimuligioni.

Altri tempi. “Oggi i bambini faticano a camminare, non sanno cosa vuol dire andare a piedi. Mangiano cibo spazzatura e ingrassano. La loro è una generazione di obesi. Scaricati davanti al televisore o al computer e a forza, una o due volte a settimana fuliaus in piscina”.

Anche la scuola contribuiva a cambiare radicalmente l’identità cagliaritana. L’italiano prendeva il sopravvento, la lingua sarda veniva bandita. “Parlate l’italiano, troverete lavoro e aiuterete la famiglia”, raccomandava un’insegnante. A Cagliari la scuola era ancora quella di stampo fascista, classista. Scuola media, avviamento professionale, addestramento al lavoro. Anche se, diceva il poeta e preside Raimondo Manelli, “si addestrano gli animali, non le persone”. Era la scuola delle disuguaglianze. I figli delle famiglie benestanti legavano poco e nulla con i bambini poveri ed erano accompagnati a scuola dalle domestiche. “Non offrivano, non dividevano, non sapevano che in su bucconi sparziu s’angelu si nci sezziri, non conoscevano la solidarietà dei poveri”. Nulla a che vedere con Efix, che al rientro dallo sfollamento, la casa distrutta, abitava assieme alla famiglia in un ricovero di fortuna nella Passeggiata coperta di Saint Remy.

In quel periodo la scuola di Cagliari sfornava indimenticabili figure dei professori. I migliori, carichi di valori e di umanità, davano tutto di se stessi per l’educazione dei ragazzi. I peggiori, sedentari e presuntuosi, insegnavano senza amore e ripetevano sempre le stesse cose. Uno, in particolare era tra più amati dagli studenti. Sardista, lussiano doc, parlava agli allievi di una Sardegna libera e indipendente. “Sardegna non è Italia – diceva -. Noi abbiamo una terra, un’identità storica, etnica, abbiamo una lingua e una cultura, siamo una nazione. L’Italia è uno Stato, non una nazione. Quando mai gli italiani sono stati uniti! Tutti i tentativi di unirli sono falliti”. C’era il maestro comunista, che vendeva ai colleghi l’Unità. E c’era anche l’anziano professore continentale che, in piazza Matteotti, sceso dal treno salutava il busto di Giuseppe Verdi dicendogli: “Ciao Peppino, i piccioni continuano a cagarti in testa”. E lo stesso faceva al ritorno, al momento di riprendere il treno che lo riportava nel suo paese del Campidano.

Cagliari a mussius e arrogus
Adriano Vargiu racconta la Cagliari della passeggiata di via Roma, delle vasche, castiendi e crastulendi, dove tra i portici era possibile, davanti al Caffé Torino, incontrare gli scrittori Francesco Alziator, Francesco Zedda e Salvatore Cambosu, o il giornalista Peppino Fiori, allora alle prime armi. Via Roma era la via dei perdigiorno: mandronis, oreris, bragheris. Come Chicco, che per ore sciorinava le sue gesta immaginarie “senza prendere fiato e senza perdere una de is pivellas chi passanta, beccando tutte le sfumature erotiche”.

Tra le pagine del libro vivono migliaia di personaggi, tutti autentici. Tutti raccontati con grande divertimento e passione.

Professori, letterati come Francesco Masala, Raimondo Carta Raspi, titolare di una libreria in piazza Costituzione e grande difensore della cultura sarda. Politici come il deputato Renzo Laconi e il presidente della Regione Efisio Corrias. Poeti, come il mitico Aquilino Cannas. Ma anche tanti personaggi comuni, caratteristici di quella Cagliari che non c’è più, come Nandino e la sua strampalata canzoncina, o come Pioggia, ragazza piacente e formosa, che ogni sera alle sei scendeva dal tram nel largo Carlo Felice. Era particolarmente abbondante di seno, tanto da indurre due allegroni di Sant’Avendrace – Santa Tennera, anzi Sant’Arennera – a saggiare con uno spillo se le tette erano vere o se si trattasse di protesi. “Funti mustosa…”, fu la sentenza urlata dai due ragazzini mentre scendevano di corsa dal tram dopo l’urlo della donna.

Cagliari era la città dei bar, delle pasticcerie, che si chiamavano offellerie, e delle liquorerie. Esercizi gestiti spesso dai commercianti seuesi. Le paste al Bar Tramèr la domenica, anche se il regista Nanni Loy pare preferisse quelle del Bar Torino. Mentre al Caffè Genovese, costruito dai condannati della Colonia Penale di San Bartolomeo, si ricordava la scrittrice nuorese Grazia Deledda, che amava sorseggiare la cioccolata assieme al futuro marito, “continentale”, come lo definiva lei. Là amava stazionare anche il grande cantante Piero Schiavazzi, che una volta, dopo aver visto uno scovadori  che lavorava, gli disse di sedersi al tavolino e ordinare quello che voleva: “Dammi la scopa, oggi lavoro io per te”.

Era la Cagliari de is bagasseris, delle case di tolleranza, dei primi rapporti con l’altro sesso, del passaggio epocale dall’onanismo a su pilu. Mano morte in tram, trucchisti che, sorpresi nel buio delle sale cinematografiche, venivano letteralmente scaraventati in platea ed esposti al pubblico ludibrio. Il tutto raccontato con comicità e leggerezza in cagliaritano doc.

La strada era la palestra di vita. Si andava a piedi o in bicicletta. Is corpus de conca erano lo sport autoctono, praticato soprattutto nelle zone più malfamate, dove i cagliaritani solevano atterrare i corpulenti marinai americani scesi dalle navi attraccate al porto. “La tecnica – si legge nel libro – consisteva nel far partire con una finta un colpo di minaccia, La chi ri partu de conca”, seguito da un secondo colpo che mandava a terra l’avversario. Se però l’incazzatura era al massimo si partiva direttamente con un colpo forte alla fronte o al naso”.

Molti anche i locali cinematografi e diversi i teatri in quel periodo. Al Teatro Giardino, i ragazzi andavano in prima fila con i binocoli per vedere le ballerine del varietà. E quanto il cantante avanzava pimpante sul palco e chiedeva: “Cosa volete che vi canti”?, la risposta arrivava immediata dalla platea, O callooooniiiiGuaglione? Prego, maestro. Guaglione”.

Il cagliaritano aveva sempre la battuta pronta. Pungente. Salace. “Non si perdeva mai la capacita e l’immediatezza di inventare, fabbricare parole ed espressioni colorite al limite della bestemmia, che comunque non toccavano la Madonna e i Santi”, racconta l’Autore nel libro. Con la sola eccezione di Pio IX di cui, chissà perché, se ne son dette di tutti i colori.

E quando il postino, dopo aver soffiato nel fischietto per avvisare della sua presenza urlava: “Postaaa!”, inevitabilmente da qualche parte arrivava la risposta: “A culu”.

Ma nella Cagliari raccontata dal Vargiu si intravede anche l’aberrazione di oggi. La necessità di trovare un lavoro iniziava già ad instillare nei cagliaritani la brutta abitudine della spasmodica ricerca di un accozzo o una raccomandazione. “S’accozzu era come il pane, non se ne poteva fare a meno, non contavano i meriti, la realtà si basava sui favori. L’amorale raccomandazione elevata a sistema. Le radici del familismo, arroganza, cinismo, avidità, dell’arraffare a farrancaras dei saccheggiatori, dei ladri d’oggi. Le radici di una politica tottu po dinai, che per qualsiasi cosa uno voglia deve passare da un partito, da una chiesa, da una lobby o da una cosca”.

Ma tant’è. Scrive il Vargiu nella prefazione, che il libro è una serie di “sopralluoghi brevi e veloci nella memoria, di quando Cagliari era la mia città, ne facevo parte, la vivevo, ero una presenza umana. Affabulazioni di personaggi, nella lingua del parla come mangi, a mussius e arrogus, mazzamurru linguistico italiano-cagliaritano. Certamente allora si mangiava poco e male, si aveva però una lingua ricca di parole e di espressioni e si era capaci persino di far diventare cagliaritane le parole venute dal mare, attentus a no ammisturai su priogu sardu cun su spagnolu. A mussius e arrogus, in prima persona, perché in prima persona, per dirla con Terzoli e Vaime, tutto diventa più divertente, persino il De Bello Gallico”.

Appuntamento il 23 maggio, a Cagliari.

Cagliari a mussius e arrogus

Adriano Vargiu ha pubblicato nel 2006 per Iskra anche I discorsi di Emilio Lussu nella Sardegna del 1944.

E’ autore di antologie scolastiche: Un’isola tra passato e futuro, scrittori sardi contemporanei (Da Emilio Lussu a Gavino Ledda – D’Anna, 1976) e Destinazione Sardegna, viaggiatori e scrittori venuti dal mare (Liguori, 1980). Per le scuole ha curato anche Baroni in laguna di Giuseppe Fiori (D’Anna, 1971) e Quelli dalle labbra bianche di Francesco Masala (Loffredo, 1977). Altre opere: Guida ai detti sardi (SugarCo, 1981), Sardegna (Liguori, 1986), Castello di San Michele (SdS, 1992), Dentro il quartiere Bingia Matta – Is Mirrionis – San Michele (SdS, 1993), Via Crucis Cagliaritana (SdS, 2000), Mario De Candia (SdS, 1995), Piero Schiavazzi attraverso i documenti (LdS, 2003), La breve vita di Antonio Manca Serra (Ptm, 2010).

Giornalista pubblicista ha tenuto rubriche in quotidiani e periodici vari (sulla pagina cagliaritana de La nuova Sardegna le rubriche Andendi po Casteddu e Nosu naraus aici, dove sono apparsi molti dei sopralluoghi contenuti nel libro A mussius e arrogus), negli anni Ottanta ha curato programmi per Radio Sardegna, come Antologia, scrittori sardi moderni e contemporanei.

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