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Era da quel "The Good Girl", nel lontano 2002, che non la vedevamo alle prese con qualcosa di diverso dalla commedia, esilarante o romantica che sia e ormai per lei dichiaratamente territorio sicuro e, fino ad oggi, unico.
Evidentemente però ci sbagliavamo, o perlomeno sottovalutavamo le doti e le risorse di un'attrice che non solo dimostra di essere a proprio agio nell'interpretare una donna distrutta da un incidente nel quale ha perduto il proprio figlio e la forza di vivere, ma anche di saper filtrare la sua consueta ironia, ricavandone una versione del tutto più nera e decisamente funzionante e determinante nella caratterizzazione e nello spessore del suo personaggio.
Se non fosse ancora del tutto chiaro, insomma, "Cake" è Jennifer Aniston, o meglio, è la sua Claire Simmons: in costante peggioramento nevrotico, con la domestica a farle da badante, la dipendenza da sedativi e pasticche e il rifiuto ad affrontare il mondo a schiena dritta e testa alta (in macchina la vediamo sempre dal lato del passeggero rigorosamente a sedile inclinato). Una realtà che non ha la minima voglia di affrontare di petto, al massimo di prendere in giro, snobbare, come se potesse fregarla e farla franca, anziché ammettere di procedere a ferire sé stessa. Serve l'incontro con il padre vedovo Sam Worthington allora per dare una minima scossa alla sua quotidianità, l'esplorazione di una delle sue allucinazioni relative al suicidio della moglie di lui (conosciuta nel gruppo di riassestamento, poi respinto), nonché l'incontro tra due anime massacrate nel profondo che tuttavia non disdegnano di sorreggersi a vicenda evitando il sentimentalismo (sesso compreso).
Ma i risvolti di un canovaccio per nulla imballato e per nulla immacolato restano comunque in secondo piano, gli auspicabili miglioramenti o la redenzione di Claire non sono per Barnz una priorità o un ossessione, ed infatti, con estrema bravura, il regista fa capire di voler mettere in risalto, nel migliore dei modi, la sceneggiatura a sua disposizione - scritta da Patrick Tobin - in cui a spiccare e a fare la differenza è la presenza di quei non detti, spesso non necessari per comprendere a pieno le fragilità e la gravità di sofferenza appartenente a un comune essere umano. Dell'incidente alla base della caduta psichica della protagonista allora non c'è alcuna traccia, solo qualche indizio utile a far comprendere che Claire non ne è minimamente responsabile e che la colpa è di un uomo distante sia dalla sua vita che dalla sua famiglia. Persino quando è il personaggio di Worthington ad entrare in possesso dell'informazione, tramite la domestica, la pellicola nasconde allo spettatore la scena esplicativa, mantenendo così un riserbo e un rispetto, inaspettati eppure comprensibili. Con questo grado di umanità, più conosciuto alla realtà che alla finzione, Barnz riesce a tenere stabile la solidità, il ritmo e la presa del suo racconto, non dovendo neppure sforzarsi per appassionare e affascinare, disarmato sia di retorica e di stratagemmi: in questi casi rischiosi se non addirittura fastidiosi.
Raggiunge perciò a pieni voti l'approvazione persino dei più scettici, muovendosi in zone conosciute e ultra-esplorate, ma con esperta sincerità e misura. Nel suo piccolo, e nel suo (voler) essere piccolo, "Cake" quindi funziona egregiamente, lasciando un segno che per quanto somigli a quello di una cicatrice, visto controluce o accuratamente se non altro è li: distinguibile e vivo.
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