Calcio contro la discriminazione territoriale. Giusto?

Creato il 10 ottobre 2013 da Retrò Online Magazine @retr_online

Photo credit: batrax / Flickr / CC BY-SA 2.0.

Ora la discriminazione territoriale. Non c’è mai limite al peggio. O forse sì, se si è in Italia e si parla di calcio. Non il gioco di cui è difficile non innamorarsi, quello dell’appartenenza alla maglia, delle emozioni, dei moduli, dei fuoriclasse. Ma quello delle tifoserie organizzate, quello del pretesto all’insulto, quello dell’ odio, quello dell’ignoranza. L’ultimo episodio è la chiusura di San Siro in occasione di Milan-Udinese, a seguito dei cori anti-napoletani cantati dagli ultrà rossoneri domenica a Torino. Gli ispettori federali, presenti sulle gradinate più alte dello Juventus Stadium, hanno colto reiterati insulti, e hanno rapportato al giudice, il quale non ha avuto dubbi: è discriminazione territoriale, e la pena è una partita a porte chiuse. Da questa decisione, ecco che nasce lo scandalo. Il Milan decide di ricorrere in tutte le sedi, perché non riconosce tale reato, sostenendo che, insomma, non sono insulti, sono solo sfottò. Sostiene, inoltre, che il chiudere lo stadio è solamente un invito alla frangia estrema e minoritaria del tifo a fare ancora peggio. È subito un concorso di solidarietà: gli ultrà di Napoli, Inter e Genoa. Gli ultrà della Juventus, i quali sostengono che “Viene discriminato il popolo ultrà, condannando la libera espressione di pensiero”. Secondo tale argomentazione, l’insulto in sostanza equivale a libertà di espressione. Non solo le tifoserie: Abete, presidente della Figc, Beretta, presidente della Lega Serie A. Insomma, questa “discriminazione territoriale” non va giù proprio a nessuno. Si, è vero, punisce l’insulto, ma va contro gli interessi. Di tutti. Degli ultrà, che fanno dell’apostrofare gli avversari il loro principale divertimento, delle società e della Lega, che ci perdono in immagine e ricavi. Certo, bisogna dirlo: insulti di tal genere ci sono sempre stati, in ogni stadio, ogni benedetta domenica. Ma non è forse giunto il momento di fare quel piccolo salto di qualità, di scalare un ulteriore gradino di civiltà e rispetto reciproco? Davvero si può dire che dare del coleroso ad un napoletano sia un semplice sfottò, e che non equivalga in alcun modo all’insulto razzista? È forse troppo immaginare lo stadio come un luogo per tutti, dove si possa assistere ad un evento sportivo senza discrimazioni e violenze? Forse, in Italia, per i tempi che corrono, si. È da poco uscito il rapporto Isfol sul grado di competenze alfabetiche: i cittadini italiani sono in fondo alla classifica sui saperi essenziali per orientarsi nella società del terzo millenio, e non sanno fare un uso produttivo delle informazioni che ricevono. Sul fatto che il rispetto per l’altro e l’accoglienza verso il diverso siano oggi dei “must”, non v’è dubbio. E che il razzismo, sia questo per il colore della pelle o per la provenienza, dipenda dall’educazione, non ci piove.


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