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Calcio, dittature e propaganda

Creato il 25 gennaio 2014 da Lundici @lundici_it
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In molte società contemporanee il calcio è un luogo d’incontro e di scambio, assimilabile nella pratica a una nuova agorà. E in tale veste finisce per svolgere la stessa funzione delle antiche agorà: essere un palcoscenico per la politica. Non c’è da stupirsi, quindi, che quando, nel bel mezzo di qualche sconvolgimento politico, emerge un regime autoritario, gli stadi di calcio e il calcio stesso si trasformino in potenti strumenti di propaganda. In quest’articolo faremo quindi un tour di una serie di casi storici in cui il calcio è stato utilizzato per fini propagandistici.

Due di questi ebbero luogo in Europa nella prima metà del XX secolo, gli altri due in Sud America durante la seconda metà.

Le profonde crisi politiche ed economiche che attraversarono l’Europa dopo la prima guerra mondiale ebbero gravi conseguenze in due paesi che, nonostante siano ora tra i più rappresentativi del Vecchio Continente, erano all’epoca nazioni piuttosto giovani. Stiamo parlando, naturalmente, di Italia e Germania. Gli italiani erano usciti vincitori dalla Grande Guerra, mentre i tedeschi l’avevano perduta, ma, negli anni successivi, entrambi si ritrovarono a dover affrontare situazioni molto simili. Le difficoltà economiche e un generale clima di disorientamento favorirono il sorgere dei movimenti politici più radicali che, per usare un linguaggio calcistico, giocavano in casa in quelle condizioni.

Benito Mussolini (Dovia di Predappio, 29 luglio 1883 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945)

Benito Mussolini (Dovia di Predappio, 29 luglio 1883 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945)

Nel 1922, il fascismo con a capo Benito Mussolini s’impadronì del potere in Italia. Undici anni più tardi, il contraccolpo della crisi finanziaria globale aprì la strada, in Germania, all’ascesa dei nazisti il cui führer, Adolf Hitler, divenne cancelliere.

I due governi avevano molti punti ideologici in comune (a cominciare dall’orientamento politico di estrema destra) e uno di questi era l’uso dello sport come strumento per celebrare le meraviglie del regime. Poiché il calcio era amato sia a nord sia sud delle Alpi, era solo una questione di tempo prima che i campionati e le squadre nazionali finissero sotto il controllo della propaganda ufficiale.

Diciotto mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere tedesco, fu creata la Deutsche Reichsbund für Leibesübungen (la “Lega del Reich per l’esercizio fisico”, NdR), ente ufficiale responsabile di organizzare e supervisionare tutto ciò che riguardava lo sport nel Terzo Reich. Sotto la direzione di un signore dal nome pomposo, Hans von Tschammer und Osten, tutte le associazioni sportive tedesche persero la loro autonomia, in particolare la federazione calcio (DFB).

Nelle partite della Gauliga (il nome del campionato tedesco dell’epoca) i giocatori furono obbligati a fare il saluto nazista e quelli noti per essere marxisti o ebrei furono costretti a lasciare le loro squadre (andò peggio a coloro che erano marxisti ed ebrei…) .

I nazisti resero la vita difficile a club come il Bayern Monaco che erano considerati Judenklubs (club ebrei), tanto che il presidente dei bavaresi, Kurt Landauer, fu rinchiuso nel campo di concentramento di Dachau.

In mezzo a tutta questa follia, il paese cominciava i preparativi per le Olimpiadi di Berlino del 1936, un evento del quale Hitler voleva servirsi per celebrare la supremazia della razza tedesca.

Fermiamoci qui un momento e spostiamoci qualche chilometro più a sud, dove anche l’Italia di Mussolini aveva i propri progetti propagandistici. La federazione mondiale aveva assegnato all’Italia l’organizzazione dei secondi Mondiali di calcio della storia (i primi in territorio europeo), quelli del 1934 e il Duce intendeva servirsene per gli stessi scopi che Hitler aveva in mente per le “sue” Olimpiadi: trasformarli in una grande celebrazione di fervore nazionalista.

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Per raggiungere quest’obiettivo, fece tutto quanto fosse in suo potere perché l’Italia vincesse il titolo. Il boicottaggio delle nazioni sudamericane, che molti avrebbero considerato come un segnale negativo, fu trasformato da Mussolini in un’opportunità. Fece nazionalizzare diversi giocatori argentini in nome di qualche lontano antenato italiano, offrendo loro in cambio grosse somme di denaro.

Quando si giocò il doppio match dei quarti di finale contro la Spagna, in occasione della seconda partita, l’Italia rimpinguò le sue fila con vari “nuovi” giocatori e inoltre l’incontro fu diretto da un arbitro svedese abbastanza “casalingo”. Per non lasciare nulla d’intentato, il giorno della finale Mussolini fece sapere ai giocatori italiani che, se si fossero laureati campioni, avrebbero potuto chiedere al Duce qualsiasi cosa, ma in caso di sconfitta, avrebbero fatto bene a preoccuparsi della loro incolumità.

Tra favoritismi, macchinazioni e minacce, l’Italia si laureò campione del mondo per la prima volta. E così gli azzurri si presentarono due anni dopo alle Olimpiadi di Hitler con il titolo di squadra più forte al mondo.

E’ vero che sia il regime nazista sia quello fascista utilizzavano le rispettive nazionali per fini propagandistici, ma lo facevano in maniera diversa. Mentre la Mannschaft era stata decimata dalle epurazioni di Herr von Tschammer, come visto, la Nazionale di Mussolini fu integrata da diversi rinforzi provenienti da oltre Atlantico.

Non c’è da stupirsi, quindi, che i teutonici furono sconfitti dalla Norvegia per 2-0 nei quarti di finale delle Olimpiadi del 1936, mentre l’Italia vinse l’oro olimpico, battendo in finale l’Austria, l’altra “grande” nazione germanica. Come se non bastasse, un atleta nero, Jesse Owens, smentì con i fatti tutte le teorie razziali dei nazisti vincendo ben quattro medaglie nell’atletica. La debacle tedesca era completa.

La differenza tra i risultati ottenuti dai due paesi fu conseguenza della maniera con cui ciascun governo intese i fini propagandistici. I tedeschi pensavano che lo sport dovesse riflettere la “nuova società” che intendevano costruire. Per Mussolini, al contrario, l’obiettivo più importante non era il modello di società, bensì l’esaltazione populista che suscitava il vedere i colori italiani sul gradino più alto al podio. L’approccio tedesco era più duro, l’italiano più meschino. Difficile dire quale fosse il peggiore.

Poi scoppiò la seconda guerra mondiale (non prima che l’Italia vincesse la sua seconda Coppa del Mondo in Francia nel ’38 grazie ad un’altra dose di sotterfugi e minacce). Questa volta Italia e Germania combatterono dalla stessa parte e condivisero la medesima sorte, uscendo entrambe sconfitte dalla guerra. Mussolini fu giustiziato e il suo corpo esposto a testa in giù, mentre Hitler si suicidò nel bunker della Cancelleria.

Nel dopoguerra l’Europa smise quasi completamente d’essere terreno fertile per l’avvento di regimi autoritari. In America Latina invece, nella seconda metà del XX secolo varie dittature di destra e sinistra presero il potere un po’ dappertutto.

I cannoni avevano appena smesso di sparare in Europa, quando, in Argentina, salì al potere Juan Domingo Perón. Anche se in maniera formalmente legittima Perón rimase al governo per nove anni facendo largo uso di metodi autoritari e populisti, con conseguenze disastrose che durano fino all’attualità (“right, Mrs. Kirchner?”) . Dopo essere stato mandato in esilio nel 1955, tornò in patria e al governo, combinando ancora guai nel suo ultimo anno di vita. Alla sua morte, divenne presidente la vedova, Isabel Martínez de Perón, che fu poi deposta da un colpo di stato militare nel 1976.

Fu l’inizio di uno dei periodi più bui della storia argentina. La giunta militare, guidata da Jorge Rafael Videla, agitando la minaccia della guerriglia di sinistra dei Montoneros e per la paranoia di vedere nemici nascosti ovunque tra la popolazione civile, lanciò una campagna di terrorismo di stato che significò “sparizioni”, torture, furti di bambini, confische arbitrarie e ogni tipo di violazione dei diritti umani .

Tutto ciò era accompagnato (come non aspettarselo da dei tiranni?) da un’intensa propaganda nazionalista. Montagne di libri che minacciavano le sacre idee di “Dio, patria e famiglia” furono bruciate. Si diffuse il concetto di “essere nazionale”, che doveva rappresentare il nuovo grande ideale argentino, in linea con l’ideologia del regime. E, ovviamente, considerando che stiamo parlando dell’Argentina, anche il calcio assunse un ruolo molto importante.

Videla, come Borges, non amava il calcio. Tuttavia aveva ben chiaro il potere che aveva sulle masse (il calcio, non Borges). L’Argentina si era candidata all’organizzazione del Mondiale ’78 quando Peron era ancora vivo e, grazie all’onnipotente João Havelange (presidente brasiliano della FIFA, NdR), la ottenne, anche se agli occhi di molti, considerate le circostanze, sembrava il paese che meno meritasse quell’onore. Le malelingue affermano che l’assegnazione del Mondiale all’Argentina fu concessa in cambio della libertà del figlio di un diplomatico brasiliano. Probabilmente non conosceremo mai la verità .

Videla ordinò che quel Mondiale dovesse essere organizzato a tutti i costi, “anche se dovesse costare cento milioni”, come affermò secondo alcuni suoi stretti collaboratori. Ipnotizzare la gente negli stadi era un’ottima maniera per far dimenticare esecuzioni sommarie e torture generalizzate.

L’Argentina passò il primo turno come seconda nel suo girone e, nel turno successivo, dato che non riuscì a sconfiggere il Brasile, doveva assolutamente battere il Perù, nell’ultima partita, con molti gol di scarto per accedere alla finale. “Curiosamente” gli argentini liquidarono i peruviani per 6-0, un risultato che ancora oggi rimane uno dei più sospetti nella storia della Coppa del Mondo.

Il generale Videla consegna al capitano Passarella la coppa del mondo 1978

Il generale Videla consegna al capitano Passarella la coppa del mondo 1978

In finale trovarono la grande Olanda degli anni ‘70, a cui però mancava Johan Cruyff, che, per protesta contro le violazioni dei diritti umani, si era rifiutato di partecipare a quei Mondiali. La partita fu dura e nervosa. Gli argentini utilizzarono tutte le loro armi per perdere tempo e innervosire gli avversari, aiutati in questo dall’arbitro italiano Gonnella fece poco per tutelare gli olandesi, tanto da essere poi assai criticato dai commentatori per il suo atteggiamento “casalingo”. L’Argentina vinse 3-1 e Videla, come Mussolini, trasformò quella vittoria in una glorificazione dei valori della patria.

Menotti, Passarella, Kempes e tutti gli altri fecero la parte dei burattini della propaganda ufficiale che ebbe buon gioco a far calare il silenzio sulle proteste delle “Madres de Mayo”. Oggi tutto questo è storia e la vittoria argentina del ’78 non è particolarmente celebrata, proprio a causa delle circostanze in cui avvenne.

Quello che però non tutti sanno è che un’altra squadra che, non solo fu considerata la giusta vincitrice di un altro Mondiale, ma anche la migliore di ogni tempo, fu strumento nelle mani di un governo militare. Per parlarne dobbiamo tornare indietro di qualche anno, fino al 1964, quando, il Brasile fu teatro di un golpe militare. L’esercito agì con giustificazioni simili a quelle di cui si sarebbero serviti Videla e il suo seguito: in primo luogo evocare la minaccia dei comunisti che “avevano l’obiettivo di sovvertire i valori che rendevano grande il Paese” (sì, anche nei paesi sottosviluppati trovano posto questi stupidi deliri di grandezza).

Naturalmente, l’esaltazione di questi valori dev’essere sostenuto da un uso massiccio della propaganda, e se c’è un paese dove il calcio è ancora più amato che in Argentina, questo è il Brasile, dove sembra che ci sia un campo ad ogni angolo di strada.

Quando i militari presero il potere, la Seleção aveva appena vinto il Mondiale per la seconda volta consecutiva proprio aveva fatto l’Italia del Duce qualche anno prima. In Svezia nel 1958 e poi in Cile nel 1962, la squadra guidata da Pelè e Garrincha aveva vinto ed incantato tutti. Nel ’66 però, i brasiliani erano usciti con le ossa rotte da uno dei Mondiali più brutti della storia, ed arrivarono in Messico nel 1970 con l’intenzione di vendicarsi. Il Brasile aveva una squadra eccezionale con Pelé, Tostao, Jairzinho, Rivelino, Clodoaldo e disputò un Mondiale fantastico. Senza imbrogli, senza macchie, senza minacce, i brasiliani diedero una lezione di calcio a tutti, battendo l’Italia in finale (Mussolini dovette rigirarsi nella tomba) .

Il Brasiel del 1970

Il Brasile del 1970

Ma la dittatura stava aspettando nell’ombra. Il presidente, il generale Emilio Medici Garrastazu, aveva già provato ad immischiarsi nella gestione della nazionale, facendo pressioni perché fosse convocato un suo protetto, Dario, cosa che probabilmente contribuì all’esonero dell’allenatore Jose Saldanha, già sospettato di essere un comunista, che fu sostituito da Mario Zagallo.

Dopo la vittoria in Messico, Garrastazu si adoperò per trasformare il trionfo dei verde-oro in un successo del suo governo e nella consacrazione di tutto ciò che era autenticamente brasiliano contro “quelle idee alienanti” che sostenevano i comunisti.

Come sarebbe accaduto a Buenos Aires otto anni dopo, in Brasile tutti si dimenticarono delle “sparizioni”, delle persecuzioni, della censura e di altri orrori del regime. L’anestesia della propaganda nuovamente utilizzata per lenire il dolore della nazione.

E’ difficile continuare a definire il calcio uno sport. “Ma…come? Questo qua è impazzito?” è quello che, probabilmente, stai domandandoti, caro lettore. Sì, il calcio è un’attività fisica. Certo, la competizione è parte della sua natura. Ovviamente ci sono delle regole. Se ci limitassimo a queste tre caratteristiche, allora sì, sarebbe solo uno sport.

Ma già da diversi decenni, il calcio è andato oltre queste definizioni. La vita e il gioco s’intrecciano e si riflettono l’una nell’altro. E così i problemi della vita stessa tendono ad entrare nei campi di calcio . Tutto questo dovrebbe avvenire spontaneamente, venire dall’anima della gente. E’ invece terribile quando chi vuole esercitare un controllo su ogni cosa, utilizza qualcosa di magnifico come il calcio per inculcare nella testa delle persone come devono votare, chi devono seguire, cosa devono pensare. O non pensare.


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