Non so quanti, oggi, si ricorderanno di lui. Magari pochi, speriamo non pochissimi. Ma coloro che lo faranno, coloro che oggi dedicheranno anche un solo minuto alla memoria di Nicola Calipari (1953 – 2005) – l’agente ucciso nove anni fa da soldati statunitensi in Iraq poco dopo la liberazione di Giuliana Sgrena, giornalista de Il manifesto per la vita della quale l’ex funzionario di polizia si fece scudo umano – lo faranno senz’altro con gratitudine.
In anni nei quali ciascuno, quando va bene, fa appena quel che può, Calipari si sacrificò come uno che fa fino in fondo quello che deve. Ed anche se sulla sua morte, che parve esecuzione, in realtà, non si è mai fatta – o non si è mai voluta fare, dipende dai punti di vista – vera chiarezza, il suo esempio di servitore dello Stato rimane limpido e luminoso. Come un invito a non tirarci indietro, a fare del nostro meglio per ciò che vogliamo ottenere senza risparmiarci, capitasse il peggio, su quello che possiamo dare.
Non so quanti, oggi, si ricorderanno di lui. Magari pochi, speriamo non pochissimi. So però quanti dovrebbero ricordarsi di gente come Calipari. Sono quelli che “l’Italia è bella peccato che ci siano gli italiani”, quelli che minacciano sempre di andarsene dalla penisola da dove Nicola è partito come uno degli agenti migliori ed è tornato come uno dei migliori esempi. Si ricordassero, ci ricordassimo che per onorare il Paese che così spesso critichiamo Calipari ha dato la sua vita senza esitare, avremmo un motivo in più per tacere. E, forse, anche per arrossire.