New York, 1913
È un po’ che sono ferma qui, dopo lo sbarco dal piroscafo non ho avuto molte occasioni di far valere la mia appartenenza al vecchio continente e ho qualche remora a entrare nei giri di una certa levatura. Sto quasi in incognito, a osservare lo svolgersi delle giornate, in parte soggiogata dal timore del pregiudizio verso gli europei, presente più che mai ora che è si è sparsa la voce dei venti di guerra. I newyorkesi ce l’hanno in particolar modo con gli italiani, ma noto che la maggior parte delle persone non sa neanche distinguere un tedesco da un francese.
Ho provato ad aggiornarti tappa per tappa del colore e del tono dei miei giorni, ma comunicare attraverso questo oceano che si fa ogni giorno sempre più vasto, è difficile, e si perde così tanto dei dettagli.
Immaginerai allora, forse, come apro con mani impazienti i tuoi cablogrammi, e le ormai rarissime lettere. Sono allenata però, e quasi non mi sforzo più di restare fedele alle parole, di non allontanarmi, portata alla deriva dell’oggettività, dal senso che mi verrebbe più facile leggervi, ma che non è.
Stanotte siedo sul gradino più alto della scala che conduce al tetto terrazzato, mantengo la porta aperta poggiandovi la schiena e guardo una luna piena che, come sempre, accorcia le distanze e somiglia a uno specchio nel quale cerco di intravedere riflessa la sagoma di Parigi, o almeno il guizzo di colore di una spiga di quell’erba aromatica che punteggia i bordi delle strade e le profuma inconfondibilmente.
Quassù tira una brezza fresca e, confuse tra i riverberi delle luci cittadine e il profumo di basilico portato fino a me dai vasi sul davanzale, mi riescono frasi leggere da indirizzare a te.
Com’è l’alloggio, hai chiesto.
A occhio saranno circa quaranta metri quadri, il pavimento è rustico, coperto di piastrelle da pochi soldi. Muri e soffitto sono bianchi, intonacati non di fresco. Non un quadro ad allietare le pareti. I mobili sono piuttosto nuovi ma dozzinali e già provati dall’uso. Appena meno di ciò che mi aspettavo di trovare, per il prezzo pattuito con la proprietà.
Troviamo qui ricovero in cinque, distribuite in un totale di tre camere. Dormiamo a due a due, strette in piccoli letti incastrati nelle due stanze più anguste. La più gracile di noi, invece, si rannicchia a sera sul divano, coperta da un lenzuolo con certi buchi che si guarda bene dal rammendare. Io stessa chiudo un occhio. Ripeto a me e alle altre che in fondo non è che una sistemazione temporanea. Di fatto una pensioncina consigliata dal passaparola tra emigranti di medio ceto. Ma, te lo dirò sottovoce e forse lo avrai già indovinato, in frangenti come questi, io quasi preferisco le scomodità. È vivendolo dal basso che si fa maggiore esperienza di un luogo.
Qui in America sorgono edifici nuovi di continuo. E si fa un largo uso del ferro e del cemento, la caratteristica più sgradevole dei quali consiste nella trasmissione del rumore. Una voce risuona per metri e metri, cammina lungo le pareti da un appartamento all’altro, viaggia dall’alto al basso, e viceversa. Sembra di essere circondati da fantasmi.
Quando mi affaccio sulla baia, da una finestra al secondo piano di questo casermone, cercando di spaziare con lo sguardo, devo sperare in una giornata buona, o di riuscire a ignorare i litigi, le risa, i dischi suonati ad alto volume dai grammofoni.
Siamo soltanto viaggiatori in sosta temporanea, tutti. Ma sono molti coloro che cedono alla necessità di riprodurre il posto da cui provengono, i suoni, le immagini, gli odori in grado di tratteggiare, ovunque ci si ritrovi, i confini di una cosmogonia del tutto personale. Saper vivere senza radici è una capacità rara, e considerato quanto questo stato porti spesso alla pazzia, come biasimarli?
Già da qualche tempo, complice il clima afoso del giorno, nelle strade non c’è più il solito via vai. Poche automobili, qualche strillone agli angoli al mattino. I miei ragionamenti si svolgono sempre più solo tra me e me, e spesso mi trovo a immaginare di riprendere in mano la valigia e spingermi un altro passo più in là.
Mi sono allontanata tanto, lo sai, ma non riesco ancora a dirmi soddisfatta. È come se fossi stata già in questo posto decine di volte in precedenza. Quasi mi annoio, non mi sorprende niente.
La gente che ho attorno è buona, e cortese, almeno in apparenza. La proprietaria viene a informarsi se va tutto bene, lo fa più volte al giorno. Porta spesso con sé bevande e ghiaccio tritato dal proprio frigidaire, si informa di come vanno le cose per ciascuna. Quanto a noi, io ogni giorno scrivo e riscrivo ancora i miei racconti, quindi, tornata all’appartamento dopo una delle mie belle scarpinate, dapprima ceno con le coinquiline, poi mi ritiro.
Ma prima di addormentarmi ce ne vuole. Le russe nemmeno bevono vodka ma appaiono sempre ubriache, tanto e talmente a lungo ridono e confabulano al chiuso della camera dove trascorrono la notte. Fanno un baccano che la metà sarebbe sufficiente. La stessa ospite del divano scoppia a volte in fragorose risate nel sonno, che fanno sobbalzare me e la schiena della donna con cui divido il letto, una che si alza prima dell’alba e rientra a notte fonda senza fare rumore e che, per la sua estrema riservatezza, ancora non ho capito bene chi sia.
Domani mattina mi recherò a pranzo presso certi amici del posto, imbandiranno la tavola già a mezzogiorno. Spero di vincere questo fastidio montante per ogni contatto umano perché, ti ho detto, mi stanno attorno persone gentili, dalle quali c’è almeno da guadagnare in serenità.
Ma all’alba raggiungerò il porto a piedi, troverò un angolo quieto sul molo più lontano e osserverò in direzione della città le evoluzioni degli uccelli in battuta di pesca. Li guarderò allontanarsi in alto, prima di ricadere in picchiata. Li vedrò scomparire controsole, per lunghi attimi ridotti a calligrammi, segni di un qualche linguaggio antico o ancora in divenire, comunque indecifrabile. Qualcosa che li accomuna a noi.