Gli Stati Uniti sono un paese bizzarro, talmente strampalato che qualsiasi tentativo d’interpretarne l’indole profonda potrebbe persino risultare stucchevole. Nascono grazie all’eterogenea e costante immigrazione europea, quella fatta da uomini che spesso in Europa non trovavano più spazio per esercitare la propria ambigua idea di “libertà”: puritani, evangelisti, presbiteriani, quaccheri, mormoni, battisti e calvinisti. Questi nuovi pylgrim, costretti a fuggire dalle terre natie proprio in virtù di quell’incompatibilità d’ideali e pratiche, perlopiù religiose, portarono sulla nuova Terra Promessa anzitutto la devozione a quei comandamenti morali. Gli stessi cardini etici che fecero nascere e poi sviluppare l’“autentica” e “sacra” idea di libertà che ha fondato, almeno nei presupposti, l’odierna american way of life, quella che vuole altruisticamente fare proseliti, evangelizzare, anche attraverso l’uso “giustificato” della forza militare. Ne fecero le spese, per primi, gli indiani nativi, miscredenti ed incivili bruti scientemente sterminati dalla superiore “razza bianca”, che rinchiuse poi i pochi superstiti rimasti in quegli zoo allargati che sono ancora oggi le riserve indiane.
Nella loro bislacca visione mondana, come lo sbiadito remake di un esodo simil-ebraico, erano convinti di essere il popolo eletto da Dio a cui era stata destinata una nuova Terra promessa oltreoceano. E forse proprio questa ingiustificata superiorità è oggi tra le maggiori eredità che ci hanno tramandato quei “padri fondatori”, il vizio celato della nuova Gerusalemme americana e dell’occidente in generale: tutti gli “altri” uomini, in virtù di questa autoproclamata superiorità morale, vengono conseguentemente valutati come persone di serie B, strumenti da utilizzare alla bisogna per perorare la propria autoreferenzialità. Un concetto da mondo “liberale” quindi, ma solo per loro! D’accordo con la fede che ha sempre indicato loro il cammino da seguire, la concezione esistenziale della vita e del rapporto col prossimo vengono quindi mutuati, in una sorta di escheriano parallelismo, proprio da quella dottrina religiosa tanto bistrattata nella madrepatria. E’ il fideistico rapporto col divino che, infatti, determina il comportamento e le corrette norme morali da applicare alla vita di tutti i giorni. Una visione dell’uomo totalmente determinista, quella calvinista, preordinata da un copione già scritto, condita dalla monolitica certezza di essere nel “giusto”, dalla parte del bene, ove il bene si manifesta anzitutto attraverso il successo sociale e la ricchezza materiale (tangibili segni del favore di Dio). Da questo punto di vista i poveri non saranno più solo poveri, ma dannati, incolpevoli rei della loro stessa povertà (eppure, se si considera la loro estrazione di ceto, questi puritani erano inizialmente altrettanto “poveri”. Si auto-nobilitano solo successivamente, un po’ come i tories della terra da cui provengono: una nobiltà che però non si fonda più sul sangue e sul lignaggio, ma sulla convinzione di essere il popolo eletto da Dio. Ed in tal senso le cariche “morali” si ereditano come i privilegi feudali dell’antica nobiltà odiata: essere puritani figli di puritani, poi borghesi “benpensanti” figli di borghesi “benpensanti”… anche essere “eletti” diventa garanzia di appartenenza ad una classe privilegiata e predestinata!). I puritani credevano infatti, e credono tuttora, che solo la grazia divina possa salvarli dall’Inferno, per cui non sono chiamati, a differenza del cattolico romano, all’obbligo delle opere, né a quello di fare del bene. Per guadagnarsi il Paradiso basta seguire passivamente i Comandamenti di quel Dio vendicativo e un po’ splatter dell’Antico Testamento. Una religione concreta, quella calvinista, escogitata da e per mercanti proto-capitalisti, che non sanno tuttavia di essere ancora tali (lo scopo della vita si riduce semplicemente al tentativo di diventare ricchi per mostrare la grazia ricevuta in dono da Dio… esibire la propria ricchezza, magari promuovendo una fondazione per aiutare i poveri e gli sfortunati – unti del signore che se la tirano! -). L’astuto padre costituente e campione di libertà, Thomas Jefferson, tracciò la via di questa presunzione “da primi della classe”, ovvero il sentiero capitalista che porta all’arricchimento a scapito di tutti gli altri “non eletti”: “commerciare con tutte le nazioni, stringere alleanze con nessuna”. Sono nati grazie ad un enorme genocidio di massa - tanto per sostenere quei valori di libertà e di tolleranza contenuti nella Costituzione e nel Bill of Rights -, e si sono consolidati a partire da una sanguinosa carneficina - che però ti spiegano essere avvenuta proprio per superare lo schiavismo e affratellarsi ancor di più - (per la Guerra di Secessione morirono quasi 620.000 uomini su una popolazione totale che lambiva le trenta milioni di persone)… ma a loro questo passato non importa, per quanto gli si ricordi i “fasti” della loro storia, gli homines a stelle e strisce si credono comunque i migliori a prescindere. E si credono migliori perché sul globale scacchiere mondiale il loro stile di vita “occidentale” ha avuto successo. A partire da quel calvinismo in odore di “liberismo”, avere successo, ottenere risultati, essere giudicati dagli altri come migliori, è sinonimo di bontà. Il successo diventa così un valore riconosciuto e “stimato”. Un po’ come diceva quella “testa tonda” di Cromwell, che di quei calvinisti migranti fu il “bomber” in patria: “chi smette di essere migliore smette di essere buono”. E il culto del risultato a fondamento di ogni moralità ed intenzione è forse la più gravida tra le lezioni lasciateci in eredità da quella mentalità puritana: la religione del risultato! Un risultato, peraltro, spesso imperscrutabile, “trascendente”, piovuto da un’altera e infallibile divinità alla quale ognuno deve inchinarsi (ma che in fondo sappiamo strizzare l’occhio proprio a noi, solo a noi! Un Dio a cui, peraltro, mi inchino sempre volentieri, ché alla fine mi dà continuamente ragione…). E a furia di convincersi di essere comunque dalla parte della ragione - buoni, giusti e vincenti a priori -, hanno finito, in una beffarda legge del contrappasso, per interpretare il ruolo dei de-menti monomaniacali: l’infallibilità dei fallibili, il successo dei succeduti, i tolleranti intolleranti, i tredici volte numeri uno, gli innamorati dei reduci del Vietnam, i fuoriusciti perdenti che hanno il mito del successo, gl’inventori dei grattacieli nel paese degli spazi finiti, bisognosi di “negri” discriminati per potersi poi commuovere dei propri immensi principi civili calpestati…