E così, sono arrivata alla fine del “Diario di una cameriera”, un’edizione del 1957.
Non un vero e proprio diario (giorni, date, saluti e così via) ma il racconto in prima persona della protagonista, che a un certo punto diventa facile identificare con la stessa autrice. Non soltanto perché una rapida lettura della sua autobiografia rivela che “andò a fare la cameriera e la cuoca, l’infermiera durante gli anni di guerra, poi la giornalista: raccontò queste esperienze in alcuni libri”, ma anche perché la camerierina in questione si chiama proprio Monica Dickens (pronipote di Charles, amabile e prolifica scrittrice di cose comuni e modeste).
Credo che un tempo questo si sarebbe potuto definire “romanzo per giovinette”, anche se, in più, qui c’è una leggera vena umoristica (di quelle molto molto english) e nessuna concessione a quello che oggi viene chiamato il politicamente corretto (ci sono ragazze troppo grasse, troppo magre, troppo piene di arie, acide, maculate, uomini pessimi, puzzolenti, e qualcuno per cui “l’unico modo per distinguervi dal vostro cavallo è che lui è più bello”, e così via).
Così, seguiamo Monica nel suo quasi improvviso desiderio di trovarsi un lavoro e in tutti i tentativi di dimostrare che non è l’assoluta inetta che pare essere a ogni impiego: e le esperienze sono di cuoca, cameriera, tuttofare, in una girandola di pratiche culinarie improvvisate, di scale lavate a rovescio, e di fatiche estenuanti.
Quello che piace a questa cameriera, tuttavia, e le fa sopportare giornate intensissime e a tratti forsennate, è il contatto con la varia umanità che questo lavoro le permette (i guadagni, tra l’altro, sono davvero scarsi) e che anche noi conosciamo attraverso il suo racconto. Quello che è piaciuto a me è anche il fatto che l’autrice riesce a delineare le giornate di questa ragazzetta senza biasimare le incapacità sue, e accettando come naturali anche gli egoismi o la mancanza di sensibilità di altri.
Ecco, forse a un certo punto (diciamo poco più della metà), il gioco si fa un po’ troppo scoperto: cerco lavoro, trovo lavoro, padroni stravaganti, cameriera incapace, varie cene e pranzi bruciati, cambio lavoro (in realtà non proprio così, ma per dare un’idea senza raccontare tutto). Più avanti, tuttavia, il racconto si riprende, cambia lievemente la trama e porta tranquillamente il lettore fino alla fine.
Quasi fino alla fine.
Perché l’ultimo capitolo, in terza persona, ma sempre con Monica Dickens come personaggio principale, rinuncia a tutta la piacevole leggerezza precedente, e, pur mantenendo qui e là gli accenni allo humor inglese già citato, è tutto sommato una sorta di predicozzo riassuntivo sul cosiddetto “problema ancillare” del quale, sinceramente, posso dire poco: ho infatti letto a singhiozzo, qui e là, tanto per confermare la prima impressione sul fatto che sarebbero bastati i capitoli precedenti per illustrare tutti i pro e i contro del lavoro domestico così come era stato vissuto dalla protagonista.
Lettura insolita, per i nostri tempi, ma piacevole, tanto che la benemerita casa editrice Astoria ha ripubblicato nel 2012 un altro suo libro (e perché non continuare?).