Il prossimo luglio a Ferrara, dopo Sufjan, i National e i Beirut ci sarà anche PJ Harvery, la sera del 6, anche se sarebbe più appropriato dire che dopo di lei arriveranno gli altri, non solo per galenteria ma perché la cara vecchia Polly Jane sforna musica da molti più anni di tutti loro, da almeno quindici, passionale e potente come il suo volto devastato anche quando truccata per le foto di rito, come se non si potesse mai liberare dei demoni che animano la sua musica, che le hanno fatto scrivere album post rock, post punk e post tutto, urlati e disperati, che a un certo punto l'hanno anche portata a perdere la bussola, forse troppo simile alla maestra mai dichiarata, a quella Patti Smith irraggiungibile, e che ora invece sembrano essersi dileguati, magari non del tutto scomparsi me meno presenti, prima grazie all'intimismo ancora incazzoso del precedente A Woman a Man Walked By, realizzato in coppia con John Parish, ora con il bellissimo Let England Shake, che è un album sussurrato e al tempo stesso cantato, narrativo e dolente, che parla di guerre e di massacri di innocenti, di follie dei potenti e normalità della gente comune, come se dietro quelle storie si nascondesse la stessa PJ, ancora con la sua voce acida ma un po' meno corrosa, piena di amore stridulo e di voglia di ballate popolari, notevole perché a suo modo pura, alle radici non tanto della sua musica quanto, s'immagina, della propria vita, della propria terra, l'impero britannico in dissoluzione ai tempi della Grande guerra al centro di un paio di pezzi e dunque regno in bilico, scosso dai suoi stessi peccati, dai pianti dei morti e dei vivi, dai singhiozzi ispirati di un rock personalissimo che finalmente si è liberato dei propri modelli per camminare con le sue gambe. Gran disco, se non lo si era capito.
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Il prossimo luglio a Ferrara, dopo Sufjan, i National e i Beirut ci sarà anche PJ Harvery, la sera del 6, anche se sarebbe più appropriato dire che dopo di lei arriveranno gli altri, non solo per galenteria ma perché la cara vecchia Polly Jane sforna musica da molti più anni di tutti loro, da almeno quindici, passionale e potente come il suo volto devastato anche quando truccata per le foto di rito, come se non si potesse mai liberare dei demoni che animano la sua musica, che le hanno fatto scrivere album post rock, post punk e post tutto, urlati e disperati, che a un certo punto l'hanno anche portata a perdere la bussola, forse troppo simile alla maestra mai dichiarata, a quella Patti Smith irraggiungibile, e che ora invece sembrano essersi dileguati, magari non del tutto scomparsi me meno presenti, prima grazie all'intimismo ancora incazzoso del precedente A Woman a Man Walked By, realizzato in coppia con John Parish, ora con il bellissimo Let England Shake, che è un album sussurrato e al tempo stesso cantato, narrativo e dolente, che parla di guerre e di massacri di innocenti, di follie dei potenti e normalità della gente comune, come se dietro quelle storie si nascondesse la stessa PJ, ancora con la sua voce acida ma un po' meno corrosa, piena di amore stridulo e di voglia di ballate popolari, notevole perché a suo modo pura, alle radici non tanto della sua musica quanto, s'immagina, della propria vita, della propria terra, l'impero britannico in dissoluzione ai tempi della Grande guerra al centro di un paio di pezzi e dunque regno in bilico, scosso dai suoi stessi peccati, dai pianti dei morti e dei vivi, dai singhiozzi ispirati di un rock personalissimo che finalmente si è liberato dei propri modelli per camminare con le sue gambe. Gran disco, se non lo si era capito.
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