Giorgio Messori a Venezia nel 1981
Di FABIO CIRIACHI
(Il presente articolo è la trascrizione dell’intervento di Fabio Ciriachi su Giorgio Messori al convegno tenutosi su di lui nel 2010 presso l’Università La Sapienza di Roma)
La mia testimonianza sarà anche un’autocritica. Non era previsto che così fosse, ma è accaduto, e come tale la riporto. Leggendo Storie invisibili e altri racconti col proposito di parlarne qui, oggi, forse per quel riflesso condizionato di controllo che si attiva in me quando studio un testo, mi era parso che il libro non possedesse un centro, dei confini, o altri elementi che aiutassero a definire le coordinate per una sua piena intelligenza critica. Più insistevo, insomma, a voler contenere la scrittura di Giorgio Messori nei vincoli di una gabbia interpretativa, più quella si rivelava inafferrabile. Cosa non funzionava, nei miei tentativi? Dove sbagliavo?
Ho dovuto infine arrendermi a tanta irriducibilità per capire che lo sbaglio non stava nel metodo ma nel merito. Non era il mio modo di interrogare il libro, che non andava, e nemmeno il mio ammirato attraversarlo (esperienza sorprendente per la conoscenza reciproca che ne sortiva, e quando dico reciproca intendo che mentre conoscevo la scrittura di Giorgio Messori avevo la netta sensazione che anche quella scrittura mi stesse conoscendo), lo sbaglio stava nel volerlo fare in nome di una definizione che me lo rendesse visibile e dato una volta per tutte. Ecco, quello che non andava era l’immobilità alla quale i miei assidui tentativi avrebbero rischiato di consegnarlo. Vediamo, allora, come questo libro è riuscito a non farsi assoggettare, e vediamo anche cosa mi ha svelato, di sé, nel difendersi dal mio assedio.
In realtà la scrittura di Giorgio Messori – che ho indagato a fondo attraverso le pagine di Storie invisibili e altri racconti, ma che ho percorso più superficialmente anche con La città del pane e dei postini, con Viaggio in un paesaggio terrestre e con gli scritti sull’opera fotografica di Luigi Ghirri, Le mattine del mondo e Il pianeta sul tavolo) – è come un organismo complesso e mobile votato alla continua ricerca di un altrove. Mobilità la cui inarrestabile erranza, che immagino rifletta quella di Messori stesso, è determinata, a mio avviso, da una duplice motivazione. La prima, fondamentale: mantenere il corpo vivo della scrittura nel perfetto equilibrio del “qui e ora” necessario al compimento di ogni esperienza creativa. La seconda, conseguente: difendere i risultati del processo creativo da quelli che Messori considera i peggiori effetti collaterali della pubblicazione, che sono, nell’ordine: la visibilità, il cui assillante eccesso è diventato oggi una vera e propria emergenza esistenziale; le definizioni, capaci di ingabbiare la vita scritta in pseudo-ordini gratificanti che allontanano dalla vitale catena delle domande e dei dubbi; la stasi sensoriale, relativa sia ai sensi del lettore (che non si attiverebbero quanto serve ad ogni nuovo incontro col testo), sia al senso stesso del testo (il cui territorio finirebbe per perdere quella dote di segreta pluralità che sola fa nascere il desiderio di una sua continua scoperta). Tutte conseguenze, come si vede, che rischierebbero di condannare l’opera a una sorta d’immobilismo assai vicino al rigor mortis. L’inattaccabilità della scrittura di Messori sembra fondarsi, quindi, sul suo essere una sorta di organismo-confine, la cui costituzione (almeno a leggere le Storie invisibili) sembra aver preso avvio attorno a una ferita originaria (giocoforza infantile, a giudicare dal tema ricorrente dell’infanzia che esonda nella vita adulta) sapientemente convertita in cicatrice dal continuo lavoro degli occhi che guardano e della lingua che scrive.
Per orientarmi nella sua semplicità (solo apparente) provo a partire dalla citazione da Proust che fa da epigrafe al libro. Ora io non so, poiché il libro è uscito postumo, se quella citazione sia stata voluta da Messori o dal curatore, ma vuoi che sia di origine autoriale, vuoi di chi, conoscendo l’autore, l’ha ritenuta a lui compatibile, c’è, sta lì, e merita tenerne conto. L’epigrafe dice: “Il passato è un paese lontano in cui tutto si svolge in maniera diversa”. Come non esserne catturati? E come non vedere, nella scelta di un simile viatico, la volontà di avvalorare un rapporto col tempo cronologico che garantisca la più ampia libertà espressiva? È come se Messori ammettesse, in sostanza, di aver preso in considerazione il fattore tempo, di averne valutato la sostanziale inaffidabilità, e di aver deciso di snaturarlo agendo sulla memoria che proprio col tempo intrattiene vertiginose relazioni. Ma come ci sarebbe riuscito? Nel modo più radicale possibile, trasformando cioè l’entità tempo, che nella nostra esperienza è irreversibile, in un altra entità, lo spazio, la cui reversibilità, invece, è fuori discussione: “Il passato è un paese lontano…”. In astrofisica, per quel poco che ne so, la condizione di un tempo reversibile (lì accomunata anche a quella di uno spazio irreversibile) la si riscontra solo in quegli strenui divoratori di materia che sono i buchi neri. Ma qui, nell’operazione tentata da Messori, i motivi di una mossa così spiazzante sono tutti dalla parte della più piena libertà espressiva. In sostanza: se nulla, in vita, è per sempre, allora vuol dire che tutto cambia (o può cambiare), anche il passato; nei confronti del quale, a essere lungimiranti (come non esserlo se si tratta di un “paese lontano”) si può ancora intervenire scavandone nuove forme con la scrittura, disegnandone, con lo sguardo, differenti ubicazioni.
La capacità di guardare, dunque. Stando alle Storie invisibili, sembra che Giorgio Messori l’abbia sempre coltivata; anzi, abbia fatto del guardare la sua principale attività, e siccome per guardare bene bisogna non essere distratti, ecco che la seconda condizione fondamentale, per riuscire, è la solitudine. Che non vuol dire starsene per proprio conto rifuggendo la compagnia (a volte è anche questo), ma soprattutto vivere lo stare insieme avendo ben presente che lo spazio interiore dell’altro va rispettato. Messori questa rispettosa solitudine accompagnata la cerca, e la trova (quanto a testimonianze scritte), almeno tre volte: con L’ultimo buco nell’acqua, composto assieme a Beppe Sebaste, con Le mattine del mondo e Il pianeta sul tavolo, concepiti durante il foto-grafare di Ghirri nell’atelier di Morandi, e con Viaggio in un paesaggio terrestre, scritto assieme all’amico fotografo Vittore Fossati come progetto di un resoconto di viaggio eseguito parallelamente da due scritture diverse (verbale e fotografica) senza che nessuna fosse gregaria dell’altra per funzione didascalica.
Nelle Storie invisibili Giorgio Messori fa di questa solitudine una sorta di tema ricorrente. Se ne riscontrano tracce un po’ in tutti i racconti i cui protagonisti, che la subiscano o che ci si accompagnino deliberatamente, vediamo barcamenarsi in difficoltà che li portano (e ci portano) verso situazioni al tempo stesso insolite e dimesse, estremamente particolari e però estranee a certa facile spettacolarità narrativa che usa l’enfasi e le tinte forti con la stessa pervasività con cui un tempo, in culinaria, si usavano la panna da cucina o i dadi da brodo. Accomuna questi dolenti ma mai disperati personaggi una inesausta inclinazione a guardare, del tutto lontana dai molti voyerismi contemporanei perché fondata su un apprendistato di eccezionale rigore, come testimonia il protagonista di Un salto fuori: “Non guardare niente, concentrarsi sul niente, è stato l’esercizio che ho imparato meglio quand’ero poco più che un bambino”. Chiarito questo, si può comprendere in pieno quello che si dice del protagonista di Un poeta mancato?: “C’era un libro di un poeta francese che leggeva continuamente, poi andava alla finestra a vedere cosa gli dicevano le parole che aveva letto”. O quanto afferma l’io-narrante de Il cinema a Milano che a conclusione di una giornata intensa passata con una ragazza al parco e al cinema così conclude il racconto: “Poi siamo tornati a casa in bicicletta, a guardare e commentare i cornicioni delle case”. E che l’atto del guardare e vedere rivesta un’indiscutibile importanza lo dice con grande chiarezza anche l’io-narrante de La corsa del treno: “È come se le cose, il cielo, terra, alberi, animali, manifestassero improvvisamente una grande propensione reciproca…”. La reciprocità! Ecco la grande ricchezza coltivata da Messori, la sua più sorprendente lezione: riconoscere la reciprocità, se la si incontra per caso, o determinarla col lavoro di scrittura, questa particolare e davvero insolita qualità del rapporto alla quale ho già accennato, all’inizio, confessando la mia sensazione che nell’approccio a Storie invisibili e altri racconti il meccanismo di conoscenza fosse reciproco; tale per cui, mentre leggevo e conoscevo un racconto, anch’esso, al contempo, mi leggeva e mi conosceva (che è molto più dell’essere mostrati a se stessi cui si perviene, a volte, attraverso la buona letteratura).
Sono convinto che nell’opera di Messori esistano almeno due lingue: quella dei racconti, da una parte, e quella del romanzo e dei resoconti di viaggio e fotografici, dall’altra. La più libera a me sembra la prima, capace di slogature sintattiche impreviste che non diventano metodo, che scattano solo quando la necessità creativa lo richiede, e mai nello stesso modo, mai oltre il necessario, mai a opacizzare la limpidezza del tessuto narrativo, quella capacità delle parole di risuonare in modo nitido, puro, che è quanto tiene insieme racconti di peso, struttura e durata diversissimi, dove si alternano per lo più personaggi appartati e rimuginanti, tanto problematici e scoperti quanto inermi e spesso profondi: a volte precoci cultori dell’invisibilità (l’io-narrante di Sale da ballo dice: “Non potevo farmi vedere così perché avrei smesso d’essere invisibile”), a volte fuggiaschi che si sono riaperti alla vita grazie a un tintinnare di braccialetti su un polso femminile (come il protagonista di Forse l’esilio comincia nei sogni a occhi aperti che nel separarsi da Marianne racconta. “Ci abbracciammo ma già mi sembrava d’esserle diventato invisibile”); a volte, ancora, come si legge in Esercizi spirituali, preda delle suggestioni di morte che la scomparsa imminente di un intero territorio, sul punto di essere sepolto dall’acqua di una diga, scatenano in loro: “Un attimo prima ti beavi nell’estraneità, spaziavi in un mondo aperto e colorato. Poi tutto si allargò a tal punto che ti venne un capogiro. In quel momento hai visto che tutto il mondo girava anche senza di te…”.
Ma il racconto che segnalerei su tutti gli altri – quello dove le due scritture di Messori confluiscono fino a trovare una sorta di identità comune che sembra contenerle e rappresentarle entrambe – è La luna di Giacometti. Cronistoria di un’opera mai vista che chiude la raccolta Storie invisibili così come Messori l’aveva preparata per l’editore Diabasis (raccolta uscita poi postuma con l’aggiunta, da parte del curatore, Gino Ruozzi, della sezione Altri racconti, formata da testi editi e inediti). La luna di Giacometti è strutturato nella forma cara a Messori dello scrivere di altri artisti, del loro lavoro, della loro vita; ma qui, anziché il racconto di una vera esperienza – come quelle vissute con Ghirri nell’atelier di Morandi, e con Fossati, nel Viaggio in un paesaggio terrestre – Messori gioca con la fiction storica e inventa una fantomatica opera di Giacometti (di cui esisterebbe traccia in certe carte mal catalogate) che nessuno ha mai cercato davvero. Impresa nella quale si cimenta, invece, il critico Gigino Rafedi che con tecnica d’indagine ispirata ai principi del suo maestro, De Selby (il cui motto suona all’incirca : “La realtà dell’arte è sempre più grande e più bella di come la immaginano i critici”), anziché interrogare i libri si reca di persona nei luoghi di Giacometti dove incontra l’uomo che lo aiuterà a scovare l’ultima, e segreta, opera del maestro.
Accanto alla consueta cura dei dettagli ambientali, tipica dei lavori con i fotografi, qui Messori gioca con i personaggi in una maniera che attinge direttamente a quella sorta di stralunato realismo tipico di una certa fase della narrativa italiana (area emiliana) primi anni Ottanta, segnata soprattutto dal silenzio editoriale di Celati che, in quel periodo, stava elaborando il passaggio dal taglio di tragicomica antropologia degli anni settanta (Le avventure di Guizzardi, 1973; La banda dei sospiri, 1976; e Lunario del paradiso, 1978) alla svolta – direi ambientale, paesaggistica – dei secondi anni Ottanta (che tanti mugugni ha sollevato in una parte della critica) connotata dalla scelta di un rapporto privilegiato col territorio e le sue storie (Narratori delle pianure, 1985; Quattro novelle sulle apparenze, 1987; e Verso la foce, 1989), sorta di registrazioni, da un lato, di quel patrimonio di storie e vicende che solo ai viaggiatori è dato conoscere e che rischierebbero di perdersi se lasciate al meccanismo della trasmissione orale; e, dall’altro, di veri e propri resoconti di viaggio che da quella ricerca sul territorio traggono origine.
Non è stato per pignoleria che ho messo le date accanto ai libri di Celati; i conti col tempo bisogna pure farli, e un raffronto cronologico tra quei libri e le pubblicazioni di Messori può aiutare a comprendere meglio genesi e influenze di queste ultime. L’arco di tempo a cui sono riferibili i racconti che compongono il primo Storie invisibili va, come scrive Gino Ruozzi nell’introduzione, dal 1983 al 1995, mentre i racconti editi e inediti (accompagnati ciascuno dalla data della loro pubblicazione o della loro stesura, tranne il racconto Forse l’esilio comincia nei sogni a occhi aperti, databile per via deduttiva a prima del ’92, essendo uscito nell’antologia curata da Celati, Narratori delle riserve), vanno, invece, dal 1978/79 (a cui risale il primo dei racconti inediti, Il romanzo di Icaro, il più a sé stante di tutta la raccolta, forse il meno messoriano) fino al 2005, l’anno che precede la morte. Se si considera che il primo libro di Messori, quello scritto con Beppe Sebaste, è del 1983, non è difficile immaginare che abbia trovato nel Celati a cavallo tra la prima e la seconda maniera (ma già più vicino a quest’ultima) una fonte di possibile indirizzo nello stilare la mappa sconosciuta dei lavori futuri.
Al di là dell’ammirazione incondizionata di Messori per Robert Walser e per Franza Kafka, però, se facciamo un elenco degli scrittori il cui nome figura nelle Storie invisibili, ecco che il ventaglio dei suoi referenti si fa immediatamente ricco d’interesse, giacché ad ogni interlocutore nominato vanno riconosciute, oltre alle credenziali di “ideale compagno di viaggio”, anche le paternità di possibili influenze. Nominiamoli a nostra volta, i molti qui citati, senza spingerci a cercarne tracce nell’opera di Messori; facciamolo semplicemente per dare nomi e volti a quella che deve essere stata la sua evidente non solitudine di scrittore: Peter Handke, Roland Barthes, Peter Bichsel, John Barryman, Walter Benjamin, Josif Brodskij, Thomas Bernhard, Allen Ginsberg, Samuel Beckett. Accanto a questi – accollandomi tutto il rischio della proposta per quanta diversità stilistica ed etica divide Messori dal nome che sto per fare – io metterei anche il Goffredo Parise dei Sillabari, la cui uscita in volume nel 1972 (Sillabario N. 1) e nel 1982 (Sillabario N. 2) rende plausibile che possano aver fatto parte delle letture del giovane Messori. E indico i Sillabari proprio nell’accezione in cui lo stesso Parise li intende introducendo il volume del 1984 che li raccoglie insieme. Scrive Parise: “…dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore”.
Ora, proprio questa della poesia è la ragione dell’accostamento che sento di fare fra Storie invisibili e Sillabari, e non già perché, come dice Garboli, “I Sillabari non sono racconti, non sono apologhi, non sono operette morali. Io non riesco a trovare migliore definizione che questa: sono romanzi virtuali”; perché se penso alla fulminante immediatezza di racconti brevissimi contenuti in Storie invisibili, come La bistecca o anche Dispiaceri in casa, fatico ad attribuire loro lo stesso valore di “romanzi virtuali” che Garboli attribuiva ai Sillabari; e anzi, vedo in certi racconti più lunghi di Messori, suddivisi in poco necessari capitoli, una sorta di iperfetazione al limite della tenuta di quelle qualità che invece lui è bravissimo a far risplendere nei racconti di misura breve o brevissima.
Un’ultima osservazione – utile a chiudere il cerchio della mia autocritica, aperto all’inizio – la voglio fare sul critico Gigino Rafedi e sul suo maestro “il grande e ingiustamente dimenticato De Selby”, i cui nomi, splendidamente inventati, figurano in quel racconto unico che è La luna di Giacometti del quale ho già fatto cenno. Scrive Messori in questo racconto: “E perciò Rafedi, prima di studiare qualcosa sui libri, si reca di solito nel posto in cui l’opera è esposta o in altri casi, come nel caso in questione, dove l’opera è stata concepita. Poi fa un sopralluogo per cercare di capire se il posto gli piace, e nel caso di Stampa, starsene qualche giorno in una pensioncina fuori stagione gli sembrava l’ideale per fecondare il suo genio, magari per ritrovare proprio l’Opera definitiva che Rafedi era convinto esistesse, visto che Giacometti ne aveva parlato alla moglie. Inoltre, lo aveva già imparato da tempo, sapeva che se vuoi cercare qualcosa non devi mai andare troppo lontano, come diceva il suo celebre maestro, e questo fra l’altro si combinava perfettamente con una naturale tendenza alla pigrizia del giovane critico Gigino Rafedi, che infatti per le sue ricerche predilige sempre posti molto tranquilli”. Ecco, grazie a certe preziose verità inventate, ora so che se avessi fatto anche io il mio apprendistato alla scuola del grande De Selby, all’inizio di questo viaggio nella scrittura di Giorgio Messori non mi sarei perso nelle impenetrabili nebbie della mia arroganza interpretativa. Probabilmente, invece, avrei preso una camera in una pensioncina tra Reggio Emilia e Parma, e approfittando del fuori stagione avrei elaborato e composto queste note con rilassatezza rafediana, forse mettendomi a scriverle in qualche birreria coi Puffi (che ci sarà ancora da quelle parti), o sennò su un tavolo della mia pensioncina; magari, tra una frase e l’altra, osservando dalla finestra, con gratitudine, la leggibile nebbia padana amica di Messori.