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CAMMINARSI DENTRO (299): Ineluttabili malinconie

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Mercoledì 2 novembre 2011

Il potere distruttivo delle illusioni non sarà mai documentato abbastanza! Non parlo degli esempi e degli argomenti da addurre a sostegno della tesi della loro ‘pericolosità’. Su questo c’è una letteratura autorevole, che intendo riproporre. Mi riferisco al lavoro che facciamo su noi stessi lungo le età ulteriori della vita, quando affiorano i ricordi sgradevoli e quando i mancati riconoscimenti ci educano lentamente all’idea che quei riconoscimenti non arriveranno mai, perché magari è troppo tardi per noi, perché i detentori del ‘potere’ da cui dipendiamo hanno modificato le loro regole, che non contemplano più la nostra presenza o che la considerano residuale, niente più!

Gli ‘esempi’ che più mi fanno soffrire oggi non possono diventare materia di ‘discussione’ qui: il danno che già ho ricevuto a causa di esse si accrescerebbe ulteriormente! Questo mi porta a pensare che di vere illusioni si è trattato, che parlarne è rischioso, che questo aspetto non è secondario rispetto alla loro natura.

L’esito di questa scoperta, di cui si fanno sempre più chiare le implicazioni pratiche, è il silenzio: l’effetto più evidente del loro ‘smascheramento’ dentro di me è dato dalla scelta del silenzio. Non parlarne con nessuno è scelta morale, oltre che una forma di difesa.

Una catena di errori che abbia prodotto guasti nei rapporti con qualcuno e per i quali non c’è rimedio si traduce finalmente in un’assoluta assunzione di responsabilità. Se pure altri avranno contribuito o addirittura saranno stati determinanti nell’evoluzione degli eventi, l’impossibilità di parlarne deriva spesso proprio dalla confusione che si è generata, per la quale non vale di pena di chiamare in causa chi non ammetterebbe mai una responsabilità pur piccola.

La mente trascorre tra un evento e l’altro, cerca l’anello che non tiene, una via di fuga, un argomento a cui aggrapparsi per fornire all’altro la possibilità di aiutarci, magari riconoscendo una parte soltanto di responsabilità, ma è inutile! In alcuni casi non c’è altro da fare che arrendersi di fronte all’intransitabilità di un’utopia, perché in queste dimensioni grandi si traduce il grumo di eventi di cui non si riesce a venire a capo.

Immaginate, ad esempio, che qualcuno abbia messo in giro ‘voci’ su di me, in parte vere. Cosa dovrei fare? Andare a cercare una per una le persone raggiunte da quelle ‘voci’ per fornire l’interpretazione più attendibile, solo perché ‘salva’ la mia immagine dal discredito? Non rischia di essere controproducente il ricorso alle spiegazioni ‘postume’, quando magari il tempo sta già provvedendo a sfumare, a diluire, a illanguidire i ricordi?

La forza delle emozioni che accompagnano l’evento maggiore può essere determinante, facendo propendere per la strada della recriminazione, del lamento, dell’indignazione, se ci convinciamo che in quel modo restituiremo credibilità al nostro nome.

Più spesso, tutte le strade sono ostruite: il garbuglio è tale, la qualità umana delle persone implicate è così scadente che è preferibile tacere. Il silenzio che consegue è la misura di prudenza a cui è indispensabile ricorrere per non complicare il ‘quadro’.

Resta il compito grande dell’elaborazione minuta dei passaggi, dei sentimenti associati alle scelte intempestive, della necessità del danno… Tutto ciò che si è determinato nel tempo è parte della catena che ha portato al danno. In nome del danno, non è possibile invocare ‘sconti’ o addirittura ‘assoluzioni’: la pena va scontata fino in fondo.

Ci sono pene che non finirò mai di scontare, perché ho già potuto verificare che le persone che si ritengono offese, ferite, colpite da me anche a distanza di anni mostrano di non essere per niente intenzionate a perdonarmi.

E’ compito del pudore nascondere la colpa con la catena delle conseguenze, contribuendo a creare lo spazio dell’Inconfessabile che mai nessuno conoscerà.

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