Vivono in container sovraffollati, sorvegliati da decine di telecamere. I nomadi del campo di Salone provano a costruirsi ogni giorno la loro quotidianità e normalità, con un impegno nel cassetto: riuscire ad integrarsi. Questa è la vita dei rom che popolano il Campo di Salone nella periferia est di Roma, una delle realtà più contestate e la più conosciuta della Capitale. Un popolo, perennemente ospite, che dopo l’incidente mortale di via Boccea causato da tre giovani rom in fuga rischia di consolidare il male del razzismo e quello, peggiore, del qualunquismo su un intera comunità.
Un articolo di qualche anno fa che resta sempre attuale, un reportage fatto tra i container e le telecamere del Campo rom di Salone.
Uno spunto di riflessione. Una storia da (ri)leggere…
È una vita parallela quella dei nomadi che popolano il campo di via di Salone. Un’area recintata, e sorvegliata 24 ore su 24 da telecamere, dove alcune case-container di pochi metri sono abitate da decine di persone mentre altri container rimasti vuoti vengono abbandonati a se stessi. Una comunità in aumento che negli ultimi mesi, dopo l’elezione di rappresentanti e consiglieri nel campo, si è organizzata per sopperire a quei problemi per i quali non interviene il comune.
“Abbiamo organizzato una piccola cooperativa perché c’era sporcizia e il comune non ha i fondi. L’abbiamo fatta per gestire le pulizie e tenere un po’ in ordine, ma almeno per le fogne che perdono abbiamo chiesto al comune di darci una mano – spiega Husovic Hakida, consigliere nel campo nomadi – Abbiamo una squadra di 20-25 operai che lavorano. Il comune con noi risparmia, perché se c’è un tubo spaccato non aspettiamo mesi che arrivi qualcuno ma andiamo e chiudiamo il tubo. E inoltre diamo la possibilità ai ragazzi di lavorare. Infondo è un po’ strano che ci siamo noi nel campo e devono arrivare altri da fuori a tenerlo pulito e sistemarlo”.
Qui, sotto l’occhio vigile della sorveglianza, questa comunità ufficialmente di 670 persone ma realmente di quasi mille anime lotta con le difficoltà di un campo inadeguato e poco sicuro, dove ormai anche gli spazi esterni comuni sono quasi del tutto spariti. “Ci sono persone che aspettano un container da parecchio tempo. E se uno esce o lo lascia, lo potrebbero dare subito ad un’altra persona invece di lasciarlo abbandonato a rovinarsi, è un peccato! – dice poi Husovic Hakida – Ci sono container di sei metri dove vivono 12 persone, con un solo bagno. E poi ci sono container dove entrano da fuori e se ne impossessano. Noi abbiamo reclamato questa cosa al quinto dipartimento e ai vigili, anche perché non sappiamo chi sono questi che ci mettiamo dentro”. E guardando le telecamere che ogni dieci metri puntano l’obiettivo attorno al campo, i consiglieri e rappresentanti dei rom commentano: “Questo per me è come era un tempo ad Auschwitz: prima non c’erano le telecamere ma c’erano le guardie, adesso anziché pagare la guardia hanno messo le telecamere”. “Qui ce ne sono tantissime, siamo come nel Grande Fratello” aggiunge Lucan Marian. “Queste telecamere costano e potevano metterle dove c’era proprio bisogno, non ogni dieci metri – prosegue Husovic Hakida – Invece di spendere questi milioni, potevano costruire degli appartamenti visto che anche tanti italiani aspettano una casa. E anche noi potevamo così vivere in una casa cercando di integrarci. Invece siamo sempre ammucchiati dentro al campo”.
Tra gli stretti spazi, che servono da passaggio e al tempo stesso da balcone alle case-container, sono ormai spariti gli spazi dove far giocare i bambini, dove la comunità possa organizzare feste e matrimoni. E soprattutto, sono delle potenziali trappole in caso di incendi o pericoli.
Intanto questi non-cittadini nascono in Italia, frequentano le scuole italiane finché gli è consentito e, nonostante cerchino di conquistarsi spazi di integrazione faticano ad uscire dal recinto di questa ‘riserva’ legalizzata. “Come pensano al futuro i nostri figli?” si chiede Husovic Hakida. “Dopo la terza media i bambini non possono andare più avanti – esclama Lucan Marian – Dopo la terza media la sua vita finisce e non ce la fa studiare e andare avanti, perché senza documenti non si può lavorare e non ci si può integrare”. “E poi un ragazzino che torna da scuola qui al campo come fa a integrarsi? A imparare da un altro la cultura, come vive, per farsi conoscere e così integrarsi?” prosegue Husovic.
Vite parallele, quelle dei cittadini italiani e di questi aspiranti italiani. Separate ancora dal pregiudizio e dall’ignoranza.
da “La Fiera dell’Est” – dicembre 2011