Non c’è bisogno di ulteriori presentazioni per il gruppo tedesco. Nonostante questo, a più di quarant’anni di distanza dall’esordio, riesce a far parlare di sé come fosse ancora la prima volta. Segno che la musica che ha prodotto è cosi avanti nel tempo che potrebbe averne per un secolo ancora. Provocazioni a parte, queste Lost Tapes sono un compendio necessario (voluto da Schmidt & soci) per apprezzare ancora una volta l’enorme mole di stimoli e idee che la band di Colonia è riuscita a esprimere in quel lasso di tempo. Evidente è un dato: i numerosi pezzi qui presenti non sono soltanto una rimasticatura a latere di cose già espresse nei lavori che molti di noi conoscono a menadito, ma, anzi, sembrano essere un positivo surplus, una serie di pietre più o meno preziose estratte dal cilindro quando meno te lo aspetti. Un box triplo, questo, che è in grado di far venire un capogiro anche al più attento conoscitore della materia, dove si prendono a prestito tutti i canoni del r’n’r di allora amalgamandoli come meglio non si potrebbe fare. Nel primo disco spiccano il funk rock spastico con le creme d’organo di “Waiting For The Streetcar”, o la quasi boutade, sempre in odor di funk, di “Deadly Doris”. Non manca il divertissement rock della estenuante “Grablau” (che sembra quasi una loro interpretazione della “Sister Ray” velvettiana).
Nel secondo il discorso si fa ancora più complesso (il beat mostruoso di “Midnight Sky” o le nenie bucoliche di “Dead Pigeon Suite”), ma ci sono anche le versioni fiume (on stage) di “Spoon” e “Mushrooms” nel terzo disco, tanto per non farsi mancare proprio nulla.
Da menzionare il drumming stratosferico di “On The Way To Mother Sky” ─ siamo già nell’ultima parte ─ in coppia con “Messer, Scissor, Fork And Light” (prenotare subito la costruzione di una statua a Jaki Liebezeit, please!). Ad un certo punto si permettono addirittura il lusso di suonare come in un film di Jesús Franco (il funk sudaticcio della melliflua “Bernacles”). E non disdegnano neppure atmosfere soffuse in “Private Nocturnal” e “Alice”. Non dimentichiamoci che i Can, anno 1970, prestano alcune loro composizioni ad una pellicola meno conosciuta del film-maker polacco Jerzy Skolimowski (“Deep End”) con una giovane fiamma di sir Paul McCartney (Jane Asher) nella parte della co-protagonista. Recuperate quel film, ne vale la pena, anche per meglio comprendere l’importanza storica di uomini che hanno davvero fatto la differenza.
Doverosa postilla: per chi scrive i Can, insieme a Stooges, Captain Beefheart, Silver Apples, Velvet Underground e Black Sabbath, rappresentano – s’intende nei rispettivi campi di azione - i modelli che più o meno tutti devono aver seguito nel corso dell’evoluzione della migliore musica popular. Affermare il contrario sarebbe quantomeno ingeneroso nei confronti di questi preziosi musicisti.
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