di Antonio Porta
da “Antologia degli Anni Settanta”, 1979 Feltrinelli
“ecco, vedi, abito questo episodio al punto di non poterlo descrivere … ” V.R.
Vittorio Reta si è servito del linguaggio elaborato nel decennio precedente per il proprio viaggio, un viaggio che a poco a poco si è trasformato nel suo corpo lungo linee di tensione condotte fino all’insopportabile per arrivare a scoprire, infine, la purezza della voce che racconta e poi decidere di non avere più nulla da dire, e spegnerla. Reta ha cercato, forse, nella morte quello che ha cercato nella vita: “cancellare i regni della notte precedente” e fissarsi in un “atto luminoso”. Di qui il suo nomadismo ben consapevole di non poter raggiungere alcuna meta se non quella di una momentanea sospensione del tempo come nella stazione in cui “nel quadrante rosso rosa… le lancette si erano fermate per un mese”. Mentre Gastone Monari (autore di Pur che tutti ridano, pubblicato nel 1973), altro suicidio che pesa nella poesia del decennio e la segna anche con l’impronta del silenzio, è rimasto in gran parte prigioniero di una coazione a ripetere che gli ha impedito di affrancarsi da influenze dirette appena precedenti, Reta si muove con libertà nella dimensione del racconto almeno fino alle poesie finali in cui ha maturato la volontà di non dire più, rasentando l’afasia nel tentativo di recuperare una densità semantica che non poteva essere sua (e che era stata invece di Giuliani nel Tautofono). A questo punto i due silenzi (di Monari e di Reta) si ricongiungono e sul linguaggio della poesia si allunga di nuovo un’ombra di sospetto. Ma è un sospetto ingiustificato: quella di Reta è stata una scelta consapevole, come il suo viaggio, come il suo linguaggio ed è proprio la sua poesia che ci lascia un’eredità di vita non eliminabile. “ecco, vedi, abito questo episodio al punto di non poterlo descrivere … “: è questo il rischio di una totale identificazione tra corpo e scrittura e le vie di uscita possono essere illusorie. Si elimina solo il corpo e la scrittura rimane, come segno di contraddizione, quale è, nella cultura contemporanea.
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dagli appunti manoscritti di Antonio Porta, per gentile concessione di Rosemary Liedl:
“è il poeta con più spessore di questi anni, ‘poesia come corpo’, perché riesce a tracciare nella sua andatura discorsiva/epistolare un ritmo preciso e sinuoso, lungo linee di tensione mai allentata… lingua = linguaggio = corpo = movimenti = viaggi = fughe. Reta è il poeta del viaggio in ogni senso (droga e geografica), è nomade e segue la strada della sua sintassi ma il viaggio rischia sempre di essere senza ritorno…”
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da Visas e altre poesie di Vittorio Reta, a cura di Cecilia Bello Minciacchi, Le Lettere, 2006.
se non avessi fatto a pezzi il tuo sorriso
scomponendolo in particelle meteorologiche
per scandagliare i fondi—-che ci separano
paradigma scomparso dai vocabolari nell’
e ancora invento un nome – stacco – scomparso?
I brandelli del tuo vestito di velluto rosso bandiera
quando mi sono chinato e alzato quattro volte per abbracciarti
se sono crollati dietro come – in una gigantografia miserabile
che se appena facevo in tempo a farti voltare con un verso,
ti vedevo,
sì, cadi giù ora fra gli intervalli
scivola via come se dicessi te lo ordino, fra le parole crociate,
palpando i muri come se fossero le tue ossa
di quella città infernale
dimenticati i sogni,
ti ho frapposto spazi fra i narcisi che comperasti
quella mattina al grand socco, cadendo in silenzio.
(ndr mi scuso per non aver saputo rispettare la grafica originale del testo che riportato in sede digitale perde indubbiamente il respiro dato dalla spaziatura originale voluta dall’autore)