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canto notturno di un pastore errante dell’asia

Da Saraconlacca

(…) se tu parlar sapessi, io chiederei:
- Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? -
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.


Il Canto Notturno è un momento chiave per capire lo sviluppo del pensiero e della poesia leopardiana. Leopardi è spinto a considerare , utilizzando la figura di un pastore errante, la costitutiva infelicità dell’intero genere umano e anzi di tutti gli esseri viventi. Nel paesaggio asiatico, desolato e stepposo, sovrastato dalla misteriosa vastità del cielo stellato, un pastore interroga la luna sul perché delle cose e sul senso del destino umano. Ma le sue domande non trovano risposta, e il silenzio del cielo sconfinato gli conferma ciò che già sapeva, cioè che la ragione è insufficiente a comprendere il mistero delle cose e dell’esistenza universale.  Scegliendo una figura umile come protagonista della lirica, Leopardi vuole dimostrare come tutti, ricchi o poveri, intellettuali o analfabeti, si pongono le stesse domande senza risposta sul significato della vita e sull’esistenza del male; anzi, sulle labbra di un semplice pastore questi interrogativi acquistano una forza particolare, che esprime la “radice” comune della condizione umana. Il pastore assimila la propria vita alla corsa affannosa di un vecchio infermo verso la morte. Il pastore immagina che la luna, contemplando dal cielo lo spettacolo della vita terrena, possa vedere ciò che al pastore appare misterioso; la luna , infatti, dovrebbe essere in qualche modo consapevole di ciò che l’uomo ignora. Ma lo sconforto emerge nell’ammissione finale, in cui i dubbi fiduciosi lasciano spazio a una certezza terribile : a me la vita è male. Il pastore si rivolge anche alla sua greggia, che invidia in quanto essa, a differenza dell’uomo, sente la vita solo istante per istante, dimentica subito ogni stento e così non soffre “la noia”. Dunque la vita è semplicemente un male e , quando l’uomo sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo vuol dire che avverte la noia. Infine nella mente del pastore balena una possibile felicità in una condizione di vita diversa, quella degli uccelli, molto diversa dalla sua ma subito a questa immaginazione succede l’idea che in qualsiasi forma o stato la vita è un male.


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