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Cantucci toscani.....detti di Prato

Da Pamirilla
Cantucci toscani.....detti di Prato
Questa è una delle ricette più semplici del mondo, i dolcetti sono noti a tutti e la tradizione è piuttosto antica.
Sembra però che la ricetta originale ceda spesso il passo ad una versione più saporita e gentile, che prevede l’aggiunta del burro . Così i tozzetti si possono gustare anche come biscottino da colazione o da accompagnamento per il thè. Ma i cantuccini sono nati duri, spigolosi e secchi. Perché devono essere pucciati nel vin santo. E questi due amici, fedeli nel tempo l’uno all’altro, mi piacciono senza i fronzoli inutili e posticci, che sono arrivati di recente, a minare la sapienza delle cose minime.
La ricetta che seguo io, trovata tanto tempo fa su un vecchio libro di cucina toscana (che sottolineava, peraltro, la differenza tra tozzetti e cantucci e cantuccini o biscottini di Prato), non prevede grassi, né lievito nè aggiunte post moderne come gocce di cioccolato, aromi o altro, proprio come quella originale.
Con questa ricetta ho iniziato il mio viaggio da pasticcera; allora non sapevo né che sarebbe stato un viaggio né che sarebbe stato così lungo. Tantomeno potevo sapere che si sarebbe rivelato tanto ricco ed imprevedibile.
E ora che sono in viaggio e che sono lontana da casa mi viene naturale di pensare da dov’è che sono partita.
E, guarda caso, sono pure in Toscana.
Pochi ingredienti: solo farina zucchero e uova. Uova tante. E poi le nocciole o le mandorle. Io preferisco sempre le nocciole. Ma a dire il vero credo che la ricetta sia stata inventata con le mandorle. Ornella ne sarà contenta.
Ingredienti:
400 farina
250 zucchero
150 nocciole
4 tuorli (uno per la finitura)
2 uova intere
Un pizzico di sale

Nel borgo, tra una campana e l’altra suona l’orologio della torre. Ad ogni quarto.
P. fa risuonare il ferro sotto il fuoco ed il martello, la sua bottega di fabbro-musicista è davanti alla mia porta.
Di sotto, nella piazzetta, sussurrano piano le opere in pietra di V. e la sera, all’inizio del tramonto arrivano le rondini e fanno gran voci; il fiume che scorre nel cuore del paese, invece, canta allegro, come un tenore ubriaco ed innamorato, a tutte le ore, ma a me piace andare ad ascoltarlo la notte. Cercando di non pestare le lumache. È un borgo pieno di musica.
E di lumache, la notte.
Ora ci sono anche io, con mestoli e alambicchi.
Monto le uova ed i tuorli con lo zucchero, finché sono bianche. E poi aggiungo a poco a poco la farina.
Nel giardino saltella un merlo e mi chiedo che fine abbia fatto il gatto.
Amalgamo le nocciole. La pasta è pronta quando non è più appiccicosa ma ancora abbastanza morbida. Ne faccio dei salami di circa tre centimetri di diametro e li glasso con il tuorlo sciolto con poche goccie d’acqua. La pasta si adagerà da sé nella sua caratteristica forma a lunetta.
Oggi è una giornata caldissima. Ho litigato con quasi tutti gli elettrodomestici di casa: la lavatrice non vuole saperne di prendere il sapone dal cassettino e ho dovuto imboccarla io; il PC fa come gli pare e di Internet oggi non c’è traccia; il frigorifero ha una presa suscettibile ed il forno……anche lui aveva da dire la sua.
Incrocio le dita e cerco di spiegare al forno che non ha motivi per volermi male, io, per esempio, non gliene voglio. “Ti prego, 180°, per venti minuti. Dorati. Puoi farlo per me?”.
“Uhm” la vaga risposta, che mi farò bastare.
Dopo venti minuti tiro fuori le teglie, aspetto qualche minuto perché i pani perdano un po’ di calore ma, ancora caldi, li taglio in tanti biscotti, spessore di circa un centimetro. Bisogna fare quest’operazione con un coltello pesante, lama tagliente, gesto netto e prima che il dolce si freddi o il taglio non sarà preciso e i biscotti si romperanno facilmente. Tagliati tutti i biscotti si devono far asciugare di nuovo in forno, prima su un lato e poi sull’altro.
Alle cinque del pomeriggio le campane esplodono. Dlin, dlindin dlon, dilidin, dilidon, dilidin, dilidon, dididodon, dlin, dlon….più o meno. E poi don….don…..donnnnn, l’ultimo un don piccolo, piccolo, saluta tutti e si porta via le campane.
Il caldo è un po’ calato, ma c’è ancora tempo per l’ora delle poesie e delle favole, l’ora del tramonto, quando la luce dell’ultimo sole illumina i colli e la pietra come fossero senza Tempo e senza paura.
Quella è la mia ora preferita, il momento più dolce di tutta la giornata.
Se oggi fossi meno pigra me ne andrei nelle vigne a guarderei il sole scivolare sul seno dei colli, sbirciando attraverso le foglie e l’uva. Ma più semplicemente seguo il fiume fino alla fine del paese, salgo sul colle e ridiscendo dalla parte opposta.
La torre suona l’ora.

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