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Capire come possiamo capire

Creato il 14 settembre 2010 da Stukhtra

Un giovane cosmologo fra scienza, arte e divulgazione

di Marco Cagnotti

Quest’intervista è disponibile in versione
ridotta anche nel podcast di
Quarantadue

Che cosa c’è di più preciso e certo della matematica? E che cosa di più oggettivo e sicuro della sua figlia prediletta (ahem, si fa per dire…), la fisica? Leggi eleganti, rigorose e perfette, prive di eccezioni, quasi incise nella pietra fin dall’inizio dei tempi. E noi lì, a spremerci le meningi per scoprirle e poi stamparle in dotte dissertazioni che diventeranno patrimonio comune del genere umano, nello stupefacente edificio intellettuale della scienza che…

No. Niente. Calma e gesso. Fare scienza significa sporcarsi le mani, ravanare fra dati imprecisi e parziali, verità in progress, revisioni, ripensamenti e barre d’errore. E la conoscenza scientifica è tutto fuorché certa. Anzi, è statistica. Ne è convinto Roberto Trotta, giovane fisico teorico… anzi cosmologo… o forse analista statistico… insomma uno che nell’incertezza sguazza. Partito da ragazzino con l’idea di capire com’è il mondo, a 33 anni si occupa invece di capire come noi possiamo capire. Un metadiscorso, per così dire. Dopo il liceo a Locarno, il diploma al Politecnico Federale di Zurigo, il dottorato a Ginevra e un incarico a Oxford, oggi Trotta è lecturer presso l’Imperial College di Londra. Con lui abbiamo affrontato il discorso alla lontana e abbiamo finito per scoprire un’insospettabile (a priori) passione per la divulgazione, seguita percorrendo strade quanto meno originali.

Capire come possiamo capire

Cominciò come cosmologo, proseguì come statistico... (Cortesia: R. Trotta)

Roberto, perché scegliere di studiare proprio fisica?

Perché ero curioso di sapere come funzionano le cose nel mondo. Forse influenzato… e lo dico con ironia… dalla famosa frase di Niels Bohr: “L’unica vera scienza è la fisica, il resto è collezione di francobolli”. Per quanto al liceo abbia seguito anche un corso di astronomia pratica, non mi sono mai sentito un astrofilo. Piuttosto, ero affascinato dallo studio dei principi basilari della realtà. Perciò questa è una carriera professionale che non ho scelto per soldi, ma per un interesse ideale, accademico. Ecco, ai tempi del liceo non lo sapevo, ma penso che la carriera accademica sia sempre stata la mia aspirazione nascosta.

E all’università hai poi trovato quello che ti aspettavi?

All’inizio no. I primi due anni al Politecnico Federale di Zurigo sono stati segnati dallo studio della matematica condiviso con i matematici. Era però una matematica molto formale, molto astratta. Ricordo che con gli amici e colleghi matematici si discuteva molto di filosofia, di logica, di Gödel… E devo riconoscere che questa formazione matematica mi è servita molto in seguito, perciò sono grato a quegli studi iniziali, per quanto molto difficili. Per fare un esempio, vedo che in Inghilterra le cose vanno diversamente… poi però lì la gente esce dall’università con gravi lacune matematiche.

E dopo?

Dopo, a partire dal terzo e dal quarto anno, c’è stata la possibilità di effettuare scelte opzionali e seguire corsi complementari e io ho cominciato a divertirmi di più: avevo stimoli intellettuali e comprendevo cose che prima non capivo. Insomma, mi piaceva molto andare in profondità e capire come funziona il mondo.

In seguito, lasciato il Poli, sei passato a Ginevra per il dottorato.

Hai presente Sliding Doors? Ecco, è stata una storia un po’ così. C’è stato un momento cruciale, che io faccio risalire all’ultimo anno, quando dovetti scegliere un tema da presentare per una relazione in classe. C’era un assistente antipatico che volevo evitare, così scelsi come argomento la radiazione cosmica di fondo. Neanche a farlo apposta, in quelle settimane c’era in visita al Poli una professoressa dell’Università di Ginevra che teneva un corso avanzato di tre settimane proprio su quel tema. Io lo frequentai per capirne di più. E cominciai a fare domande. Lei mi disse che, se volevo saperne di più, potevo contattarla anche in seguito. Così, quando venne il momento di scegliere l’argomento per il mio lavoro di diploma, decisi di occuparmi di cosmologia e di lavorare con quella professoressa, che poi sarebbe diventata anche la mia direttrice di ricerca per il dottorato. Lei aveva anche dei contatti a Oxford, così dopo il dottorato… E da lì segue tutta la mia storia accademica. Che però trova origine in quell’unica scelta iniziale.

E’ sempre così. Figurati che io mi sono sposato perché, due anni prima, una domenica mattina ero andato a scroccare un caffè a casa di mia sorella. Capita. Però, se ha ragione Hugh Everett, esiste anche un universo in cui ti occupi di fisica dello stato solido. E magari io sono ancora single. Ma torniamo ai tuoi studi. Ti sei orientato verso la fisica teorica: perché?

Sì, in effetti sono un teorico, anche se sto diventando sempre più uno specialista in analisi statistica. La fisica teorica non è stata proprio una scelta voluta, consapevole. Diciamo che l’orientamento dei miei studi al Poli è sempre stato più teorico e ho avuto poche possibilità di esplorare l’aspetto osservativo. Per la verità ho anche partecipato a un’escursione osservativa a La Chaux-de-Fonds, ma… è sempre piovuto e non ho visto niente. Quindi sì, sono finito nell’ambito teorico e quasi tutti i miei amici sono teorici. D’altronde non sono mai stato molto affascinato dall’astronomia osservativa. Anche se, devo dire, di recente ho iniziato a interessarmene a livello amatoriale.

Di che cosa ti sei occupato?

All’inizio di radiazione cosmica di fondo. Era un buon momento, perché cominciavano ad arrivare i dati di BOOMERanG e WMAP. Poi però, quando ho scritto la mia tesi, mi sono accorto che tutti i lavori fondamentali sulla radiazione cosmica di fondo erano stati svolti negli Anni Novanta. Avevano sì portato a grandi scoperte e alla fama per i loro autori, ma ormai le possibilità erano soltanto le ricerche molto in dettaglio oppure la partecipazione a collaborazioni molto numerose. E a me non interessava. Perciò negli ultimi anni mi sono occupato di altre cose, nelle quali pensavo di poter fornire un contributo più originale.

E si tratta di…?

Di analisi statistica dei dati. Spesso i fisici e i cosmologi non hanno una formazione statistica sufficiente, quindi l’interpretazione dei dati osservativi è spesso sommaria.

Ma che c’entrano la statistica e l’interpretazione? La fisica non dà conoscenze sicure e oggettive?

Vedi, le domande che ci poniamo non possono più essere risolte, come accadeva una volta, studiando un’unica immagine. Bisogna invece elaborare i dati in maniera complessa. E questa ricerca andava a toccare gli aspetti fondamentali, le ragioni della mia scelta iniziale della fisica. Non volevo più capire come funziona la natura, ma volevo capire come noi possiamo capire come funziona la natura.

E come possiamo capirlo?

Con incertezza. Grazie alla legge di Newton, noi sappiamo come la mela cade dall’albero. E questa è una legge universale scritta in un linguaggio matematico preciso, senza imperfezioni. Le equazioni sono perfette, platoniche, e godono di un’esistenza astratta. Però l’universo è fatto di mele reali, imprecise e imperfette. Insomma, quando facciamo le osservazioni e raccogliamo le misure degli strumenti ci accorgiamo che compaiono errori, difetti, mancanze. Sono problemi seri e fondamentali che vanno affrontati in maniera precisa. Perciò la scienza non si occupa della verità, ma si occupa… almeno per quello che ho imparato dal mio lavoro… dell’incertezza. E il compito più difficile per uno scienziato è quantificare l’incertezza dei propri risultati. Soprattutto per la fisica e la cosmologia, è fondamentale.

Quindi non conoscenza della verità assoluta, ma determinazione dell’incertezza della conoscenza. E’ vero anche per le altre discipline scientifiche?

In realtà la fisica è l’unica disciplina che possa permettersi di essere sensibile ai problemi di questo tipo. Se saliamo nella complessità, verso la chimica e la biologia, e poi su fino alla psicologia e alla sociologia, appaiono pure problemi di natura statistica. Ma quelli fondamentali sono peculiarità della fisica, perché è la più “dura” delle scienze, separata dalla matematica dallo scalino più piccolo.

Ma, se possiamo conoscere solo la nostra incertezza, allora che cosa possiamo dire dei nostri modelli?

George Box ha scritto che, dal punto di vista statistico, tutti i modelli sono sbagliati ma alcuni sono utili. Questo è vero per tutte le scienze tranne che per la fisica. Per esempio, un modello del cervello è solo una nostra approssimazione: non ha la pretesa di essere fondamentale ma solo di catturare alcune manifestazioni del cervello, come il pensiero o la memoria. La fisica invece è unica perché ambisce a descrivere il mondo come è. Cioè ad arrivare a una teoria che davvero, in senso platonico, descriva il mondo con caratteri matematici.

E come si applica la statistica in cosmologia?

Anzitutto a un livello concettuale. C’è una grande mole di dati, raccolti da telescopi e Osservatori spaziali dedicati, che non possono essere interpretati se non in maniera statistica. Quindi noi sviluppiamo un modello statistico basato sulla teoria del Big Bang. E ci chiediamo come possiamo sapere se il modello sviluppato descrive davvero quello che noi osserviamo. C’è poi la domanda complementare sui parametri cosmologici, come la materia oscura, l’energia oscura, l’età dell’universo. La teoria su questo non ci dice nulla, non predice i valori numerici. Perciò sta all’osservazione catturare questa manciata di numeri. E bada bene: con una mezza dozzina di valori numerici noi possiamo descrivere tutto l’universo, da un miliardesimo di secondo dopo il Big Bang fino a oggi. Ebbene, questi numeri possono essere conosciuti solo con l’analisi statistica dei dati. C’è poi la terza fase: determinare l’errore, cioè l’approssimazione, che definisce l’incertezza della nostra conoscenza. Ricorda: il lavoro più difficile dello scienziato non è sputare fuori un numero, ma farlo dandogli anche una barra d’errore.

Quali sono, secondo te, i grandi problemi aperti della fisica contemporanea? Se dovessi consigliare a uno studente un indirizzo da prendere per il proprio dottorato, verso quali sfide lo orienteresti?

C’è anzitutto un grande problema in fisica delle particelle: ci si chiede che cosa c’è oltre il Modello Standard. Da 30-40 anni non si fanno grosse scoperte di rilievo e il Modello Standard lascia irrisolti parecchi problemi. Si è indotti a pensare che esista tutto un mondo nascosto di particelle supersimmetriche non previste dal Modello. Proprio la ricerca di queste particelle è stata la principale motivazione per la costruzione del Large Hadron Collider al CERN di Ginevra. Se non dovessero essere scoperte, il problema potrebbe forse non essere mai risolto e rimanere aperto per sempre, perché la soluzione potrebbe essere al di là delle nostre possibilità tecnologiche. D’altronde, se invece si scoprissero le particelle supersimmetriche, avremmo forse una soluzione al problema cosmologico della materia oscura. Io penso che ne verremo a capo nel giro di 10-15 anni. Poi c’è un enorme problema in cosmologia: l’energia oscura, necessaria per spiegare l’espansione accelerata dell’universo. Questo è un problema che invece può essere affrontato solo con metodi cosmologici e che, secondo me, ci terrà occupati per i prossimi decenni. Non mi è chiaro se la risposta arriverà dalle osservazioni o dalla teoria, perché potrebbe darsi che le osservazioni future non risolvano la questione ma continuino a indicare la presenza dell’energia oscura senza però suggerire una spiegazione teorica.

Un secolo fa la fisica sembrava essere arrivata al capolinea. Un aneddoto vuole che a Planck sia stato sconsigliato di studiare fisica perché le grandi questioni erano state risolte e ormai si trattava solo di risolvere problemi di poco conto: l’effetto fotoelettrico, la radiazione di corpo nero… Robetta, insomma. Sappiamo invece com’è andata, con la relatività, la meccanica quantistica e tutto il resto. Qualcuno ipotizza che oggi ci troviamo in una situazione simile e che siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione. Tu che cosa ne pensi?

E’ una buona analogia. Se oggi guardiamo al passato ci accorgiamo di essere sulle spalle di quei giganti. Però c’è una differenza fondamentale: oggi abbiamo una mole immensa di osservazioni. Alla fine dell’Ottocento c’erano alcuni fenomeni inspiegabili per le teorie dell’epoca, però i metodi osservativi erano primitivi. Adesso invece possediamo osservazioni, dati e misure che si spingono dalla scala del laboratorio fino alle scale extragalattiche, su distanze di miliardi di anni-luce. E tutte confermano la teoria della gravitazione di Einstein. Chiunque volesse proporre un nuovo paradigma per la gravità dovrebbe spiegare i fenomeni che la teoria della relatività generale non spiega ma anche la grande serie di misure che invece la confermano in modo spettacolare. Lo spiraglio è molto sottile e il compito è molto più arduo di quanto fosse un secolo fa.

Tu non ti occupi solo di ricerca ma anche di divulgazione al grande pubblico. In che modo?

Nei modi tradizionali: articoli, conferenze, lezioni nelle scuole, partecipazioni a festival scientifici. Però mi piace anche esplorare metodi differenti per mettere il pubblico in contatto con la scienza. Così di recente mi sono avvicinato all’arte, alle espressioni artistiche che possono comunicare concetti scientifici in forma metaforica. E quindi toccare il cuore prima della mente.

Beh, l’ha scritto anche Fritjof Capra: la via della fisica può essere una via con un cuore.

Già, ma spesso la scienza viene percepita come un’attività intellettuale fredda. Quindi respinge, spaventa. Per questo mi piace l’idea di aiutare il pubblico a superare la fase di timore reverenziale, mostrandogli che la scienza può essere anche passione, bellezza, emozioni. E mi sono avvicinato all’arte.

E ti sei trasformato in artista?

Ho partecipato a un progetto di ricerca con la Scuola di Architettura di Londra, “Beyond Entropy”. Nel progetto ci sono otto team, ciascuno composto da un artista, un architetto e uno scienziato e ciascuno con il mandato di occuparsi di un tema legato all’energia. Nel mio team ci siamo interessati all’energia potenziale: che cos’è l’energia potenziale da un punto di vista fisico, come un artista sperimenta il potenziale… Quest’approccio permette di illuminare il soggetto da prospettive diverse. Tutto è nato come una performance a tre svoltasi a Ginevra durante un ritiro nell’ambito del progetto, performance durante la quale è emersa una riflessione sul concetto di potenziale che ha poi portato a un prototipo che è appena stato esposto alla Biennale di Venezia, alla fine di agosto.

Beyond Entropy: When Energy Becomes Form from Rubens Azevedo on Vimeo.

Un prototipo?

Si tratta di una specie di flipper o di calcetto, nel quale il visitatore lancia delle palline bianche e nere, alcune delle quali superano un confine e si accumulano in disordine e altre invece tornano indietro. Il disordine esprime il concetto di entropia, appunto. Poi c’è una seconda parte che modula l’idea, espressione dell’artista: Peter Liversidge. Una delle sue pratiche artistiche consiste nella scrittura in maniera articolata e precisa di proposal di opere, sempre con una macchina da scrivere Olivetti degli Anni Cinquanta, sempre rispettando una certa procedura e, per esempio, conservando tutti gli errori di battitura. Di questi proposal ne abbiamo prodotti 21, scritti a sei mani, per installazioni artistiche a Venezia. Sono stati esposti con il nostro prototipo e descrivono idee serie, semiserie, irrealistiche, perfino irriverenti. Sono spunti per riflettere sul potenziale artistico. Un po’ come l’idea delle sliding doors: 21 mondi possibili, potenziali, di cui se ne realizzerà uno, forse due, forse tutti e 21 e forse nessuno. Così viene chiarito il concetto di potenziale, in quanto qualcosa che deve ancora realizzarsi, perché quando viene realizzato scompare. Qualcosa che c’è ma non c’è, che per potersi esprimere deve rimanere allo stadio potenziale, appunto. Poi il giudizio sull’opera, anch’esso potenziale, andrà al visitatore, che dovrà investire energie interagendo con il prototipo, lanciando le palline da una parte e producendo entropia dall’altra.

Capire come possiamo capire

Tira le palline e vedi l'entropia...

E questo sarebbe lo spiegone dell’opera?

Non c’è uno spiegone. E neppure vogliamo che ci sia, anche se nel catalogo esponiamo alcune delle nostre idee. Vogliamo invece che l’opera dia un abbrivio alla riflessione. Come spesso accade nell’arte moderna, il processo soggiacente è più importante della realizzazione concreta. E il visitatore dev’essere solo stimolato alla riflessione semplicemente interagendo.

E se poi la riflessione del visitatore è del tutto diversa dalla vostra?

Va benissimo lo stesso. Anche questo fa parte del potenziale. D’altronde il nostro scopo consiste nel far realizzare questo potenziale anche in maniera casuale.

A prescindere dal canale più o meno tradizionale, per quale motivo secondo te la divulgazione scientifica è importante?

Io la vedo anzitutto come un dovere civico dello scienziato professionista, anche se purtroppo spesso fra i miei colleghi questa è una convinzione minoritaria. E’ importante spiegare la scienza al grande pubblico anzitutto perché è alla base della nostra vita quotidiana piena di tecnologia, fra computer e telefonini. Ma, come ha scritto Arthur C. Clarke, “ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. Inoltre tutti siamo spesso chiamati a prendere decisioni influenzate dalla scienza in ambito pubblico e politico. Poi i nostri stipendi sono pagati dal contribuente, perciò è giusto che il cittadino sappia che uso viene fatto dei suoi soldi. Ha ragione nel chiedersi perché vengono spesi così, che senso ha occuparsi di cosmologia o di ricerca fondamentale. Se noi non gli dessimo delle risposte, cadremmo nell’autoreferenzialità. Infine, per quanto attiene al mio campo di lavoro, i problemi della cosmologia, come l’origine e il destino dell’universo, filosofici ma affrontati in maniera scientifica, riscuotono un grande interesse. Ed è molto bello avere un dialogo con il pubblico, magari durante una conferenza. Anche se, devo ammetterlo, può esserci un effetto di selezione: quel pubblico è formato da persone abbastanza entusiaste da venire a sentire una conferenza di cosmologia. Comunque, come ho detto, la divulgazione è a mio avviso un dovere dello scienziato. Non dico che attraverso la divulgazione la scienza debba giustificare la propria esistenza, ma, se evitasse il dialogo con la società, la scienza stessa si inaridirebbe e perderebbe tutto il sostegno che invece per lei è vitale.


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