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Capitani coraggiosi crescono

Creato il 11 aprile 2014 da Lundici @lundici_it
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La bambina dell’incipit di un mio pezzo per questa rivista sta rapidamente crescendo, manifestando una naturale spiccata curiosità verso il mondo, oramai sostenuta dalle ancora marmoree certezze dei genitori e non più in condizione di totale assoluta dipendenza dalle origini.

Da qualche parte, il senso stesso della condizione umana, seppure agli esordi, in uno stato di coscienza solo accennato, spinge verso l’esterno, verso ciò che ancora non si conosce e che potrebbe gratificare, ma anche far male.

Lo stimolo all’esplorazione finisce, in un fisiologico meccanismo di crescita, per confluire nell’esperienza dell’agire e delle sue conseguenze, fornendo materiale di prim’ordine ai fini della creazione di un archivio della memoria dell’individuo che, in qualche modo, lo condizionerà e lo dirigerà.

Inutile preservare o ritardare: la vita deve fare il suo ingresso e, se non arrivare a bruciare le stanze, come narrava De Gregori, perlomeno deve palesarsi in tutta la sua forza ed energia.

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Dopo una lunga passeggiata, in una stretta di mano fondata sulla paura di pericoli stradali improvvisi e caotici, lascio andare la bimba al suo bisogno di correre.

Temo possa farsi male, ma non posso frenarla e, d’un tratto, mi scorre una sequenza di rapide immagini di una vita infantile, la mia, nutrita da un humus di allegria e vociferare festoso e irresponsabile e spenta da divieti e timori, da paure e algidi venti di protezionismo.

Allora, lascio andare la bimba che corre felice incontro al suo mondo, ma anche quel pezzo di vita, mio, chiusosi e riapertosi molto più tardi nel bisogno di integrazione di una dimensione intima e giocosa.

Oggi, quella mia dimensione è la bimba, nella veste di miss Anna, a nutrirla quotidianamente, nei miei spazi lavorativi, laddove vengo chiamata a sostituire, per qualche ora, le marmoree certezze di cui sopra.

Certo, l’occasione all’indispensabile processo integrativo la offrono miss Anna e le sue avventure o l’impareggiabile scambio di opinioni con altri bimbi che, in summit corposi, animano la vita dei parchi intorno, inducendomi a riflettere sulla pienezza della loro vita e sull’esiguità della mia o su quanto io abbia impiegato a capire che di errori la mia esistenza è piena, mentre un bimbo di soli quattro anni ne è già pienamente cosciente ai suoi esordi nella vita.

Io, però, medito anche su quanto la mia capacità di vedere sia frutto della maturità, degli anni che crescono e lasciano il segno e su quanto mi sia stata di aiuto, in tutto ciò, l’imponente strumentazione di un percorso di analisi.

Guardo miss Anna interagire, seppure ancora timorosa, con gli allegri invitati al summit e vorrei fermare il tempo per lei o, forse, per me, alla innocente dimensione in cui non sapevo e non vedevo, senza sovrastrutture, quelle stesse che ci complicano e ci rendono infernali creature manipolatorie del mondo e dei suoi abitanti in funzione di bisogni ed egoismi.

Trattasi di quelle sovrastrutture, più o meno essenziali alla ordinaria vita di società, che ci impongono, quando pesanti fardelli divengono, in forma di crisi, di esplorarci in un’intima dimensione esistenziale.

Da lì si apre un percorso di scoperta di mondi sommersi, in cui il prezzo da pagare è la coscienza di un sistema di proiezioni, come psicoanalisi insegna.

Poiché è su di sé che si può e si deve agire, un bravo psicologo ci insegna a vedere nel tumulto delle relazioni ciò che è proprio, che ci appartiene e va modificato, divenendo l’altro, essenzialmente, specchio di noi, limiti inclusi.

Il prezzo da pagare è un appannarsi lento di una oggettività che sfuma e fa paura, perché di verità, incluse le marmoree certezze di miss Anna, si compone la “fragile” comparsa su questa terra di tutti noi.

Allora, ergersi in qualità di capitani coraggiosi di noi stessi diventa un fenomeno di complessità estrema legata non tanto al disconoscimento parziale dell’altrui proprietà taumaturgica in funzione di una coscienza di rinnovata visione di sé, quanto a un fluttuare delle cose in cui è bene non naufragare.

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Se tutto ci è utile, nei limiti in cui ci rispecchia e ci riporta alla nostra umana finitezza, possiamo prescindere dall’empatia, dal sentire, dal cuore e dalle emozioni, che, seppure talvolta ci ingannano perché suffragati da un umano bisogno, sono il pane quotidiano, sono ciò che rende questa nostra presenza terrena viva, appagante, dolorosa, lacerante, entusiasmante e deplorevole, insomma illusoria, ma piena?

Mentre il cielo incomincia imbrunire ed io e miss Anna volgiamo le spalle al parco per tornare a casa, ripenso a un passaggio di Camus e mi fermo un istante a ripercorrerlo.

“…La notte incominciò…Fino a quel momento aveva vissuto. Adesso si poteva parlare della sua vita. Di quel grande slancio sconvolgente che l’aveva trascinato in avanti, della poesia fuggevole e creatrice della vita, non restava più nient’altro che quella verità senza rughe che è il contrario della poesia. Di tutti gli uomini che aveva portato dentro di sé…, adesso sapeva quale era stato: e questa scelta che nell’uomo crea il destino, lui l’aveva fatta con coscienza e coraggio. In questo consisteva la sua felicità di vivere e di morire”.

Per un attimo, si affastellano pensieri, ricordi, immagini, tumulti e speranze, lacrime di un pozzo che mi è parso, in certe dolorose esperienze, senza fondo, e sorrisi vitali e sinceri come quelli di una bimba.


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