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Nella vera e tragica storia di Cristopher McCandless, dal romanzo di Jon Krakauer, si esprime una concezione byroniana della Natura; non semplice aggregazione di flora e fauna, quantomeno panica adorazione e ricerca di un senso dinanzi ad essa, quanto ragionamento, immagine speculare che riflette l’uomo in sé e in cui la persona, chiunque sia, prende coscienza della parte più intima, torbida, animale, veritiera di sé, priva di quella parvenza di normalità che impone, in un tragitto di vita ordinaria, la società. Sia ben chiaro che Alexander Supertramp non è un semplice ribelle; in lui affiora appena l’ombra di una riflessione assalitrice di contriti istinti e doppiezze post-adolescenziali. E’ un ragazzo, un uomo in itinere, come tanti, alla ricerca del nesso esistenziale che lo vede vivo, in ragione, dilapidare tutti i suoi guadagni da college, ricusare le oscene e tristi sofferenze familiari, fatte di “secrets & lies”, coperte da un grigiore di fumo che impedisce una salutare e piena integrazione, prendere la strada di un viaggio on the road che supera l’”hippysmo” di Kerouac e si intercetta in letture, citazioni, ricerca e sforzi di felicità di autori della cultura beat o di un passato più spesso (Tolstoj). Le continue, istantanee, quasi introiettate, letture di testi in una scelta mai casuale, frappongono l’animo ed il corpo lacerato di un giovane (lato interiore) ad un contatto con anime altrettanto turbate e violate, che sembrano sopportare i limiti delle loro condizioni, sfuggendo a dure accettazioni o primi slanci di vita e corrispondono, secondo una personale chiave di lettura, ad ipotetiche immagini di cambiamento che Alex potrebbe accettare e prospettarsi nella vita (lato esteriore che si intromette negli angoli interiori da smussare). Ma la purezza candida, bambinesca di un uomo senza macchia, spingono il neo-laureato ad un’ideale di perfezione morale a cui aspirare, un ideale di amore verso il prossimo che sa di pietas cristiana, in un vagabondare mai scoraggiante, consapevole di aver trovato una via di liberazione che si insinua in un percorso naturalistico da portare a termine come sfida personale, quasi a significare la lotta ad una vita gettata nel compromesso e compromessa da una stantia immagine di persone care ad accerchiarlo. Il suo è un diario scarno, di esperienze quotidiane, di aiuto-empatia verso chi incontra, quasi una sorta di salvatore dotato di una saggezza infinita; ma è solo un ragazzo ed in lui non si fa breccia una via d’uscita, se non la completa attuazione del suo viaggio di formazione, scandito ciclicamente in capitoli, che passo a passo, lo conducono in un’amenità naturale a lui contrastante, in cui coglie il senso delle cose (giungendo a dare un vero nome alle cose e a ritrovare per iscritto la perduta identità) e cerca uno spicchio granulare di felicità nelle esperienze. E, da sottofondo, si legge la storia familiare in evoluzione, il senso di colpa, l’amorevole “adorazione”dalle parole estetizzate e accurate di una simbiotica sorella. La libertà estrema, eccessiva, che spinge a vedere in un bus il luogo di arrivo e di partenza per una nuova vita, con gli occhi lividastri rivolti al cielo, si trasfigurano sapientemente sul piano del montaggio, oscillante, e della regia che, nei momenti cruciali, segue da vicino i cangianti movimenti di una natura né buona né cattiva ma necessariamente scissa da un istinto ragionevole ed emotivo. Visione di una natura mutevole e di una lettura scissa. Capolavoro. Emile Hirsch si affida a Sean Penn e fa di Alex un simbolo estremo del disagio. La soundtrack è affidata a Eddie Vedder ed è diventata un classico. Alex Supertramp e il Magic Bus vivono nello splendore naturale.
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