Perché? E’ la domanda che mi sono fatto quando ho letto la notizia che vi sto per riportare. Perché accanirsi contro una povera famiglia, per cosa poi? Perché si ama la musica e non si vuole accettare il fatto che prima o poi le regole dovranno pur cambiare? Perché non si vuole stare al meschino gioco delle case discografiche che continuano a sfornare prodotti scadenti, riproducono dischi già sentiti e risentiti, vi aggiungono una traccia alla fine (tenetevele strette le vostre bonus tracks allora!) e fanno pagare un cd fino anche a 30 euro?
La settimana appena terminata ha sancito la sconfitta, l’ennesima, del sistema libero, della libera circolazione dell’arte, della musica nello specifico. Una onesta e laboriosa famiglia del Minnesota, i Rasset, sono stati condannati dalla corte d’appello del loro stato a risarcire la casa editrice Recording Industry Association of America (RIAA), di (udite udite!) 1,5 milioni di dollari. Soltanto per aver scaricato (o condiviso, non fa differenza) 24 canzoni dal programma peer to peer Kazaa.
Inutile l’atto di prostrazione al quale si è dovuta sottoporre Jammie-Thomas, che finora, aggiungo giustamente, si è rifiutata di patteggiare la pena: «La questione – ha specificato la donna – non è se voglio pagare la multa, è che non posso pagare la multa. Io con quei soldi faccio mangiare i miei figli, li faccio andare a scuola e li vesto». In America la violazione del diritto d’autore è sanzionata con una multa che va dai 750 ai 30 mila dollari, nel caso in cui però venga dimostrata l’intenzionalità dell’atto (in questo caso sancita da accesso e utilizzo di un programma p2p) allora si arriva fino ai 150.000 dollari. In virtù di ciò la Rassett dovrà anche ringraziare il giudice, che con clemenza e straordinaria umanità ha ridotto la pena dai 3,6 milioni a un più giusto e abbordabile ammontare di 1,5 milioni. Che dire, viva l’America, viva la sua magnifica democrazia. E a morte l’arte e suoi fruitori.
Sono stanco di sentir parlare di queste scemenze, di case editrici che non vogliono accettare che il mercato sta cambiando, e che non vogliono ammettere che l’arte riprodotta (in questo caso i dischi o qualsiasi altro supporto, mp3, ecc.) debba essere gratuita. E’ come se passando per le vie della mia città un tizio mi da un volantino della prossima mostra di Van Gogh e mi chiede di pagarglielo, magari quanto il prezzo del biglietto che poi dovrò sborsare al botteghino. La musica non vale più della pittura o della scultura, e Pistoletto non si sognerebbe mai di farmi pagare la foto della sua Venere degli Stracci pubblicata sul suo sito e che qui, a mo’ di provocazione, pubblico in testa all’articolo. Dopo gli esempi di Radiohead e Nine Inch Nails, credo che il mondo del Copyright stia evolvendo, personalmente sono fiducioso. Manca solo un ultimo, inesorabile, passo, che gli artisti cioè comprendano:
- l’enorme potenzialità della condivisione dei loro manufatti tra gli utenti, che così avranno la possibilità di decidere se per quel prodotto valga la pena pagare 20 euro oppure lasciarlo marcire nelle giacenze dei negozi.
- che è arrivata l’ora di dare il meglio di se sul palcoscenico. Basta con dischi perfetti in studio (sono buoni tutti a cantare con i filtri) e concerti da depressione a 60 euro a biglietto.
E adesso vediamo se Pistoletto ha la sfacciataggine di querelare il nostro sito per aver pubblicato la foto della sua bellissima opera.