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Carbonio, Europa e sinistra

Creato il 26 aprile 2013 da Albertocapece

108831Mentre da noi infuriavano i suicidi politici (e purtroppo non solo quelli), le commedie degli equivoci e si coagulava l’inciucio sotto le ali protettive del Quirinale, in Europa è accaduto qualcosa che mette in discussione la ratio di questo dramma italiano scritto a Bruxelles, ma anche i criteri, gli intenti, l’ideologia che ha cementato l’unione continentale. L’evento è passato pressoché inosservato e tuttavia è una chiave di lettura chiarissima per decrittare il presente e il futuro: l’Emission trading System è praticamente defunto.  Questo meccanismo era nato nel 2005 per contenere le emissioni di carbonio e si basava su un sistema di quote da acquistare e che avrebbero dovuto spingere in alto i prezzi, fino a 30 o 40 euro la tonnellata per l’immissione in atmosfera di gas serra. Ma la crisi ha fatto diminuire le attività produttive mentre nel frattempo venivano  distribuite troppe quote, così che adesso i permessi per le emissioni di carbonio stanno a 2,8 euro la tonnellata, praticamente nulla, sono dunque del tutto privi di efficacia. Tuttavia il parlamento europeo sotto la spinta delle lobby ha votato contro un ritiro di parte delle quote il cui eccesso di offerta (sempre sotto la pressione dei potentati economici) ha inondato il mercato. Insomma sulle politiche ambientali per questo capitolo, peraltro l’unico di Kyoto per il quale il continente si era impegnato, ci si può fare un croce sopra.

Ora cosa c’entra tutto questo con le questioni italiane e con la natura stessa della governance europea? E come si lega questo anche a una rinascita del pensiero di sinistra? A prima vista abbiamo un evidente collusione tra poteri elettivi e poteri economici che certo non è una novità anche se in questo caso con effetti clamorosi e deplorevoli. Diciamo che una battaglia contro queste confricazioni tra politica e affari si situano sul piano grillino della battaglia per correggere le storture. Ma andando più avanti possiamo notare come questo fallimento nasce dall’illusione -sempre meno ingenua e sempre più avida-  di poter affidare al solo mercato la risoluzione di problemi che invece dovrebbero vedere in campo politiche e normative che esprimono la volontà generale dei cittadini. Altrimenti, come in questo caso, il mercato realizza solo la tendenza alla massimizzazione dei profitti,  generando come danno collaterale anche una opaca confusione tra poteri.

Insomma il mercato non può essere invocato come un sostituto degli stati e dei governi e in generale come regolatore di quelle decisioni che investono l’interesse pubblico: il mercato non è magico, esso regola solo il profitto e spesso lasciato come arbitro non fa che peggiorare le cose. Come del resto è accaduto per l’acqua, il cui problema è stato affrontato come un problema di prezzi, mercato e profitti, creando enormi guadagni da parte delle multinazionali, escludendo poveri e talvolta intere popolazioni dalla possibilità di accedere facilmente a questa risorsa vitale e pubblica per eccellenza, ma ottenendo l’effetto contrario a quello voluto, portando cioè ad aumenti colossali di consumo. Se qualcuno guadagna dai consumi di certo   li favorirà, questo è ovvio, anche se pare essere sfuggito alle sottili menti liberiste. Se proprio si è appassionati di iniquità e si volesse puntare sul prezzo per contenere i consumi e proteggere le risorse, lo si può fare solo attraverso normative pubbliche e stringenti, dove magari viene economicamente incentivato il risparmio in maniera non lineare.

E tuttavia nonostante l’evidenza del fallimento (peraltro riconosciuto nel 2005 dalla Banca Mondiale per quanto riguarda le privatizzazioni idriche) da oltre trent’anni viviamo dentro un paradigma che predica privatizzazioni, deregolamentazioni, restringimento dello Stato, diminuzioni drastiche delle spese sociali: questo è il cuore di una visione economica e politica   che piano piano ha portato al disastro. Ma questo è abbastanza ovvio: se la tassazione è concepita per redistribuire il reddito così le normative, le leggi, le regole tendono a redistribuire il potere. E questo multinazionali, centri finanziari e la parte ricca della popolazione non lo desiderano di certo: vogliono il cento per cento.

Ora la politica da tre decenni a questa parte sembra aver rinunciato ad esprimere la rappresentanza dei cittadini,  barcamenandosi tra quelli che votano e i potentati che dispongono di molte armi di pressione, prima fra le quali la potenza di fuoco e di persuasione dei media: molto spesso il ricorso al “mercato” è una sorta di scappatoia per non deludere nell’immediato gli elettori e nello stesso tempo accontentare banche e multinazionali. Mercato come polverina magica o mercato come supremo tutore che decide la preferenza tra una soluzione o un’altra, che stabilisce le necessità. Però al di là dell’uso strumentale, al di là dei modi in cui si può nominare invano il dio del liberismo, queste concezioni hanno fatto breccia e sono diventate carne e muscoli delle forze socialdemocratiche e spesso lacrime e sangue dei cittadini.

Ciò che stiamo vivendo in questi giorni in Italia, con tutte le ambiguità venute allo scoperto, le promesse tradite, l’assenza evidente di linee politiche sono frutto di questo processo di dissoluzione delle idee, così come lo è un’Europa il cui scopo ultimo sembra sia quello di favorire la concorrenza. A quanto pare non solo fra aziende e sistemi bancari, ma anche Paesi. Bene credo che proprio da questo debba ripartire la sinistra: dalla riaffermazione delle leggi, delle normative  e della legalità come regolatori di un mercato che porta allo squilibrio e come fattore di redistribuzione di un potere ormai troppo sbilanciato. Dunque come risultato della riappropriazione del primato della politica e non come sottoprodotto di attività lobbistiche. E un primo passo, ma necessario per varcare la soglia della soffocante prigione del paradigma liberista in agonia, ma con artigli ancora affilati e adunchi.


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