CARCERI: Morire di fame a 22 anni in una cella di Stato

Da Albamontori @albamontori
Michele Minorita su      
20-10-2014
Questa storia si consuma nel carcere romano di Regina Coeli, cinque anni fa. È la storia di Simone La Penna, 22 anni, deve scontare una condanna di due anni e quattro mesi per stupefacenti. In carcere Simone contrae una grave forma di anoressia, perde una quarantina di chili, alla fine muore. Per casi come questo dovrebbe essere "naturale" che sia, d'ufficio, dichiarata l'incompatibilità con il carcere. E invece no. Pur essendo presente una struttura sanitaria interna al carcere, e nonostante Simone sia stato, sia pur occasionalmente, visitato dai sanitari dell'ospedale Pertini, nessuno sembra si sia accorto delle sue condizioni; o se se ne è accorto, non ha ritenuto che il suo stato di salute fosse incompatibile con il carcere. Così Simone è morto; e dopo cinque anni - cinque anni! - tre medici sono accusati di omicidio colposo. Il giudice della VII sezione penale del tribunale monocratico di Roma ne chiede la condanna a due anni e dieci mesi.
Ora, a prescindere dal fatto che non può dirsi esattamente giustizia una giustizia che impiega oltre cinque anni per stabilire di chi sia la responsabilità di una persona; a prescindere dal fatto che proprio quando ti priva della libertà non importa per quale motivo, lo Stato è il massimo garante e responsabile dell'incolumità fisica e psichica di un cittadino (e la cosa vale anche per Bernardo Provenzano, che viene lasciato morire in carcere e nessuno che dica un "Fiat", a parte i soliti Marco Pannella, Rita Bernardini e i radicali); a parte tutto ciò, quello di Simone è un ennesimo caso che dovrebbe molto inquietare il ministro della Giustizia Andrea Orlando; e moltissimo inquieta noi il fatto che non lo sia per nulla. Come Stefano Cucchi, Daniele Franceschi, Marcello Lonzi... uniti da un unico tragico destino, diventati l’emblema delle morti in carcere spesso avvolte nel mistero.
Sono tanti, troppi, i detenuti che muoiono in silenzio, perché la loro storia non passa sotto i riflettori e non diventa il caso mediatico da raccontare. Storie di chi si vede negare non solo la libertà, ma anche il diritto alla salute. Nessuno sa quanti siano i detenuti morti in carcere per malattia e quanti coloro che, usciti dal carcere in sospensione della pena per malattia, siano poi morti in ospedale o nelle proprie abitazioni. E che non esistano dati certi in materia, è anche questo motivo di inquietudine, spia e segnale di un sostanziale disinteresse che è grave ci sia.
La salute nelle carceri italiane è a rischio, con il 60-80% dei detenuti che ha qualche malattia a causa del sovraffollamento ma anche per una assistenza sanitaria di scarsa qualità. Lo denuncia tra gli altri la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simpse). Secondo le stime degli esperti il 32% dei detenuti è tossicodipendente, il 27% ha un problema psichiatrico, il 17% ha malattie osteoarticolari, il 16% cardiovascolari e circa il 10% problemi metabolici e dermatologici.
Tra le malattie infettive è l'epatite C la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), Epatite B (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%). La salute dei detenuti presenti nei 206 istituti di pena italiani è messa a rischio da due principali problemi: il disagio psichico e le patologie infettive. Dagli ultimi dati che abbiamo, relativi al 2012, 1 detenuto su 3 è positivo all’epatite C, la prevalenza dell’Hiv e dell’epatite B è intorno al 5% (circa 1 detenuto su 20). Mentre a soffrire di disturbi psichici, più o meno gravi, è il 25-30% della popolazione carceraria.
Fino a quando presidente Renzi, ministro Orlando? Sono "piccole" questioni che elettoralmente forse non pagano. Ma il livello di un civiltà di un paese si misura anche da queste cose, non solo da un twitter.<a href="http://www.facebook.com/people/Alba-Montori/725928608">Profilo Facebook di Alba Montori</a>

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