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Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore: «Madre, sono un fantasma»

Creato il 18 maggio 2011 da Sulromanzo

Carlo Emilio Gadda, La cognizione del doloreUna donna che soffre: il figlio è un fantasma. È strano, ma questo fantasma ha un’identità ben precisa: è l’ingegnere Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, proiezione sfumata di Carlo Emilio Gadda. Bastano questi pochi elementi per introdurre La cognizione del dolore: il romanzo è una ricerca continua, in un mondo stravolto dalla guerra. Ma non è questo il cuore dell’intreccio: la devastazione, il caos, la povertà, gli egoismi esasperati dal primo conflitto mondiale fanno soltanto da sfondo a questo lungo percorso d’indagine sulle cause e i sintomi del dolore cui rimanda il titolo.

Ma chi è che soffre, in realtà? Questa donna, che ha un “figlio fantasma”, oppure questo fantasma che non vede, non sente, la “donna che soffre”? Il romanzo prende le mosse dal dolore dello scrittore, dalla sua nevrosi, da quella malattia che lo portò a rinchiudersi in un mondo fatto di incubi e manie di persecuzione, che gli impedì di scrivere a partire dai suoi sofferti sessantacinque anni. Il punto di riferimento, insomma, è questo ingegner Gonzalo, che, ridotto a ombra, cerca in tutti i modi di allontanare la madre: ci sono barriere, non c’è dialogo, neanche quando lei, ormai vecchia, «pensava con dolcezza a questo suo primo figlio, rivedendolo bimbo, assorto e studioso».

Ne La cognizione del dolore rivive un po’ tutto Gadda – è come se il romanzo rispolverasse la sua biografia: perde il padre nel 1909, resta solo con la madre e il fratello; quest’ultimo muore in guerra, in quel mondo che non è riuscito a far fuori lo scrittore, anche lui arruolatosi volontario; non lo fa fuori, ma lo segna. Nel 1936, il colpo di grazia: Carlo perde la madre. Il romanzo nasce da questo fatto biografico: non è creazione, ma vita.

La “donna che soffre”, la madre, e questo “fantasma”, il figlio, non si incontrano mai; quando lo fanno, è solo per annunciare un nuovo allontanamento. E tra loro? La guerra, le difficoltà economiche, la nevrosi, tutta una serie di ostacoli che costruiscono una barriera indistruttibile, un muro che impedisce a Gonzalo di avvicinarsi a lei. Le cause del dolore, insomma, sono tante. Le ipotesi, ricavabili dalla vicenda biografica dello scrittore.

Ma non esiste solo lui, la sua lotta contro la borghesia pirandelliana, la sua incapacità di un abbraccio. Esiste anche quella donna lì, assorta nei suoi ricordi, spaventata, in un pomeriggio di settembre, da un temporale; una madre che ricorda i bei tempi andati, che sa di «essere alla fine della vicenda» e che qualcuno potrebbe considerare personaggio di second’ordine, magari perché “non rappresenta il vero protagonista”. Eppure, non è così: la mamma è il secondo elemento del rapporto che guida tutto il romanzo: è con lei che il figlio si confronta; è lei che Gonzalo vuole abbracciare, pur non riuscendoci. È attraverso lei che l’abile scrittura di Gadda ci regala una tra le pagine più belle de La cognizione del dolore.

Siamo alla Parte Seconda del romanzo, precisamente al Quinto Capitolo: un temporale le permette di pensare, di ricordare attraverso una serie di flashback, un insieme ben descritto di oggetti. Il tempo scorre e porta via tutto, Foscolo è maestro: «Perché? Perché? Il volto, in quelle pause, le si pietrificava nell’angoscia: nessun battito dell’anima era più possibile: forse ella non era più la madre, come nell’urlo dei parti, lacerato, lontano: non era più persona, ma ombra». Il peso della «serie degli anni, dei giorni» si fa sentire. Lei lo avverte sola, senza nessuno accanto: il figlio è lontano, e non solo nei suoi ricordi.

Lontano e traditore. In questa scena, infatti, compare Re Lear, tradito e perseguitato dalle sue figlie, un uomo la cui fronte «è senza carezze», le stesse che sono mancate alla mamma. La pagina è intrisa di dolore, una sofferenza esasperata dal comportamento del figlio. Il punto di vista, insomma, è un altro: c’è una nuova protagonista, una donna che osserva, che vede passare i suoi giorni, che guarda al passato lontano, forse speranzosa che qualcosa, prima della morte, possa succedere.

La cognizione, la ricerca del dolore progredisce attraverso scene ben costruite, un linguaggio che lascia senza fiato il lettore. Eppure, il messaggio è semplice: questa donna ricorda, sola, il passato; ricorda sola e muore sola.

«Aveva udito il rotolare del treno… il fischio d’arrivo… Avrebbe voluto che qualcuno le fosse vicino, all’avvicinarsi della oscurità. Ma il suo figliuolo non appariva se non raramente sul limitare di casa».

Quell’“apparire” fa sperare, questa visione del “fantasma” fa credere alla donna che tutto quello che ha vissuto è stato solo un incubo, ma non è così: il figlio appare “raramente sul limitare di casa”, non la chiama, non riesce a farlo. L’apparenza si traduce inevitabilmente in sofferenza: ancora una volta, la madre è senza suo figlio.


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