Noi semo quella razza che non sta troppo bene che di giorno salta i fossi e la sera le cene, lo posso grida’ forte, fino a diventa’ fioco, noi semo quella razza che tromba tanto poco, noi semo quella razza che al cinema si intasa pe’ vede’ donne gnude, e farsi seghe a casa, eppure la natura ci insegna sia sui monti sia a valle, che si po’ nasce bruchi pe’ diventà farfalle, ecco noi semo quella razza che l’è fra le più strane, che bruchi semo nati e bruchi si rimane, quella razza semo noi è inutile fa’ finta, c’ha trombato la miseria e semo rimasti incinta.
Carlo Monni- Bozzone in Berlinguer ti voglio bene, Giuseppe Bertolucci, 1978.
Avevamo ancora un aggancio con la terra di Boccaccio, Cecco Angiolieri, Burchiello, qualcuno che quando improvvisava in ottava rima o si metteva a parlare ci faceva sentire la gleba divenuta voce, canto, grido, risata, bestemmia, come è sempre stato sin dai tempi della prima lingua italiana sprizzata fuori sotto il cielo toscano. Ieri abbiamo perduto questo legame, Carlo Monni l’ha sciolto andandosene e portando via con sé una tradizione secolare incarnata magnificamente. Dire che è scomparso un attore è riduttivo, si dovrebbe invece piangere lo smarrimento di un antico manoscritto, di un incunabolo, di una memoria popolare e colta cucita nell’aria e raccolta dagli ascolti delle persone che hanno assistito agli spettacoli di Monni, alle sue partecipazioni nei film (in primis sicuramente Berlinguer ti voglio bene e la maschera di Bozzone), alle rare presenze in tv (resta tra tutte quella iniziale del 1976 sulla Rete 2 Rai in Onda libera, insieme a Roberto Benigni).
Su Carlo Monni credo, e spero, si farà giustizia parlando finalmente di un protagonista assoluto della cultura del secondo Novecento e degli inizi del XXI secolo, di una presenza forte, ma mai invadente, di una gentilezza antica intrecciata con il verbo toscano, beffardo, apparentemente sguaiato, gioviale e malinconico. Mi sono piaciute le parole di Mauro Bonciani sul Corriere Fiorentino: “Il Monni si è fermato. Per tutti il Monni era la personificazione vivente della feroce voglia di vivere e del sarcasmo del fiorentinaccio, il poeta del volgare, uguale a se stesso sul palcoscenico, nei film, nelle piazze di Firenze, della sua città, anche se lui veniva da Campi Bisenzio, sempre disposto a intrattenere e declamare.” [1]So già che ce ne saranno altre, senza dubbio più belle, e me le aspetto da ora in avanti.
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